La chiamano «Legge di stabilità», espressione suggestiva per definire un complesso di norme che, nel tentativo di fare "quadrare" i conti pubblici, rischiano di introdurre e legittimare gravi diseguaglianze di trattamento. Il comma dieci dell'articolo ventisei della medesima, qualora andasse a regime, sancirebbe il taglio di più del 30% dei trasferimenti al circuito dei patronati sindacali e cooperativistici.
Cerchiamo, meglio intenderci, di capire qual è quindi il reale stato della situazione. I patronati sono istituti che esercitano funzioni di assistenza e di tutela in favore dei cittadini, dei lavoratori, dei pensionati.
La chiamano «Legge di stabilità», espressione suggestiva per definire un complesso di norme che, nel tentativo di fare “quadrare” i conti pubblici, rischiano di introdurre e legittimare gravi diseguaglianze di trattamento. Il comma dieci dell’articolo ventisei della medesima, qualora andasse a regime, sancirebbe il taglio di più del 30% dei trasferimenti al circuito dei patronati sindacali e cooperativistici.
Cerchiamo, meglio intenderci, di capire qual è quindi il reale stato della situazione. I patronati sono istituti che esercitano funzioni di assistenza e di tutela in favore dei cittadini, dei lavoratori, dei pensionati.
La chiamano «Legge di stabilità», espressione suggestiva per definire un complesso di norme che, nel tentativo di fare “quadrare” i conti pubblici, rischiano di introdurre e legittimare gravi diseguaglianze di trattamento. Il comma dieci dell’articolo ventisei della medesima, qualora andasse a regime, sancirebbe il taglio di più del 30% dei trasferimenti al circuito dei patronati sindacali e cooperativistici. Cerchiamo, meglio intenderci, di capire qual è quindi il reale stato della situazione. I patronati sono istituti che esercitano funzioni di assistenza e di tutela in favore dei cittadini, dei lavoratori, dei pensionati e, più in generale, di tutte le persone presenti sul territorio dello Stato italiano nel momento in cui debbano rivendicare il riconoscimento di un loro diritto o rispondere a specifiche richieste di accertamento avanzate dalla Pubblica amministrazione.
La loro attività, e la funzione sociale che gli è riconosciuta, è regolamentata dalle leggi, ed in particolare, per rifarci a quella più recente, dalla n° 152 del 30 marzo 2001, che ne ha dettagliato il merito delle prestazioni nonché il loro ruolo civile. Di fatto operano come elemento di raccordo tra i bisogni individuali (ma non di categoria) e lo Stato. Infatti, l’attività di assistenza e di consulenza di un patronato è mirata al conseguimento di prestazioni previdenziali, sanitarie e di carattere socio-assistenziale, incluse quelle in materia di emigrazione e immigrazione. Si tratta quindi di enti che assistono gratuitamente i cittadini, soprattutto quelli che non possono permettersi commercialisti o altri professionisti privati, a pagamento, per tutte le pratiche relative a domande di pensione di ogni genere, comprese quelle di invalidità, civile, da lavoro, domande di disoccupazione, domande di mobilità, congedi parentali come la maternità, tutela degli infortuni sul lavoro, malattie professionali e tanto altro, non da ultimi la certificazione dei permessi dei cittadini immigrati. La legge prevede inoltre che tali istituti possano svolgere attività di supporto ad autorità diplomatiche e consolari italiane all’estero. Hanno inoltre la facoltà di poter accedere a banche dati dei vari enti preposti all’erogazione della prestazione, previa autorizzazione dell’assistito. Nel solo 2013 sono stati ben quindici milioni i cittadini che hanno fruito delle loro prestazioni.
Attualmente, il circuito dei patronati gestisce circa il 90% delle pratiche e delle istanze per via telematica.
Un fattore strategico, sia dinanzi alla complessità delle medesime che al tasso di analfabetismo informatico ancora largamente diffuso tra la popolazione. Nell’assolvimento di tali funzioni, i patronati ricevono un finanziamento pubblico, attraverso un fondo costituito e accantonato presso gli istituti di previdenza. La composizione di tale accantomento deriva da una percentuale dei contributi versati dai lavoratori dipendenti in ogni anno fiscale.
Il finanziamento è poi trasferito ai patronati in maniera proporzionale all’attività svolta, verificata dal ministero del Lavoro attraverso i propri ispettori. La quota percentuale, oggi pari allo 0,226%, è versata al ministero che provvede, con decreto a ripartire i fondi tra i patronati, in base all’attività svolta.
Il finanziamento è accordato con un sistema “a punteggio”, che riconosce punti solo per alcune tipologie di pratiche ed a condizione che la pratica stessa abbia avuto esito positivo. La norma introdotta con la legge di stabilità tratterrebbe parte di questi fondi al bilancio dello Stato, sottraendoli, in tale modo, alla loro destinazione naturale. Non di meno, ciò che essa comporterebbe è che per i lavoratori il tutto si tradurrebbe in un ulteriore prelievo fiscale, in quanto le loro contribuzioni, che rimarrebbero invariate, sarebbero stornate verso la generalità delle prestazioni dello Stato e non quelle previdenziali, per cui fino ad oggi sono state richieste. A fronte di ciò, con totale irragionevolezza, il taglio lineare dei finanziamenti si accompagnerebbe all’imposizione formale del mantenimento delle prestazioni.
Le quali sono venute crescendo in questi ultimi anni in rapporto ad un ampliamento della copertura territoriale del servizio, all’interno di un percorso di riforma avviato dalla legge n°228 del 2012. Peraltro, nessuna compensazioni con erogazioni private (men che meno attraverso la richiesta al singolo cittadino del pagamento del servizio offerto) sarebbe comunque possibile per la copertura dell’attività di patronato, come la stessa Corte costituzionale ha sentenziato a suo tempo. Con l’allargamento delle attività attribuite dal legislatore lo Stato ha registrato un risparmio annuo di oltre 657 milioni di euro, suddivisi in 564 milioni di euro per l’Inps, 63 milioni di euro per l’Inail e 30,7 milioni di euro per il ministero degli Interni.
Detto questo, se il dispositivo previsto dalla Legge di stabilità facesse il suo corso, tutto ciò non sarebbe più possibile. Per i singoli enti ciò si tradurrebbe in una secca restrizione delle prestazioni. Il cui soddisfacimento ricadrebbe direttamente sui cittadini, che dovrebbero pagare di tasca propria anche e soprattutto quando a ciò impossibilitati. Per le istituzionali padronali, sarebbe necessario procedere al licenziamento di 4.000 se non 5.000 tra dipendenti e collaboratori. Questo è lo scenario che va delineandosi. Sul quale occorre invece intervenire, perché sempre più spesso questo gioco delle poste contabili, che svuota i servizi per coprire debiti pregressi o soddisfare interessi di parte, rischia di disintegrare il sistema della coesione sociale.
Claudio Vercelli