La grave situazione che rimanda alle ripetute inadempienze finanziarie della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese fornitrici rischia di fare collassare queste ultime. Se ne è ripetutamente parlato in queste settimane, dove la decretazione del governo Monti in materia dovrebbe portare ad una temporanea soluzione di quello che è ormai divenuto un vero e proprio contenzioso tra il settore pubblico e quello privato. Ma lo sblocco dei crediti vantati dalle imprese nei confronti degli apparati dello Stato, loro committenti, è vincolato in molti aspetti alle politiche europee di contenimento del debito.
La grave situazione che rimanda alle ripetute inadempienze finanziarie della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese fornitrici rischia di fare collassare queste ultime. Se ne è ripetutamente parlato in queste settimane, dove la decretazione del governo Monti in materia dovrebbe portare ad una temporanea soluzione di quello che è ormai divenuto un vero e proprio contenzioso tra il settore pubblico e quello privato.
Ma lo sblocco dei crediti vantati dalle imprese nei confronti degli apparati dello Stato, loro committenti, è vincolato in molti aspetti alle politiche europee di contenimento del debito. Fatto che in Italia, e non solo, sempre più spesso appare essere come una sorta di cappio al collo. Se la pubblica amministrazione deve circa 71 miliardi di euro ai suoi innumerevoli fornitori, si calcola che il settore edile ne sia interessato per più di un quarto, circa una ventina di miliardi. La situazione è incredibilmente complessa, se non contorta: a obblighi maturati di fronte a servizi e opere già fornite, si sommano attività appaltate ma ferme in virtù dei blocchi di spesa imposti dal famigerato patto di stabilità. Fortissima è l’esposizione degli enti locali, che ruota intorno ai 12 miliardi.
I tempi medi d’incasso non sono quasi mai inferiori agli otto mesi, ma spesso arrivano ai due anni. Il che, sulle aziende, si abbatte come un flagello, perché queste ultime fungono di fatto come anticipatrici non solo di lavoro ma anche di denari in nome e per conto dei committenti pubblici, per i quali sono costrette poi a fare fronte ai loro obblighi chiedendo prestiti alle banche e affidandosi, dove possibile, a società di recupero crediti dalle dubbie credenziali. Dinanzi alla impossibilità di vedere onorati in tempi ragionevoli i propri crediti, e a fronte dei debiti che esse stesse devono sostenere, si creano le condizioni dell’insolvenza che, sommandosi e lievitando, portano infine verso il rischio della chiusura dell’attività.
Il paradosso di un sistema dove il cane si morde la coda è che quelle stesse pubbliche amministrazioni inadempienti così facendo potranno godere, in prospettiva, di una minore copertura economica poiché il gettito erariale, esercitato su una platea declinante di soggetti tassabili, rischia di decrescere clamorosamente. C’è un problema di fondo, dinanzi a questa sostanziale infedeltà dello Stato nei confronti dei cittadini quando essi sono operatori economici: il sistema dell’austerità, per come è stato congegnato e poi imposto ai paesi “non virtuosi” dell’Unione europea, è una vera e propria trappola, che rischia di sopprimere l’economia reale. Non si può anteporre il pareggio di bilancio e, per gli anni a venire, addirittura un rientro progressivo dal debito pubblico pregresso, se a pagarne le spese sono quegli stessi soggetti che dovrebbero creare ricchezza tassabile. È come segarsi il ramo dell’albero sul quale si sta seduti. Ma di questo infernale meccanismo gli eurocrati paiono interessarsi poco o nulla.