L’Italia è un paese sull’orlo di una crisi di nervi. Al bivio tra collassamento definitivo e una qualche chance di ripresa. Molto timida, quest’ultima. Di certo non tornerà più ad essere quello che era riuscito a divenire a suo tempo, una potenza economica e commerciale mondiale. Il problema è però di cominciare a capire cosa sarà di qui in avanti, in un mercato internazionale che altrimenti ci consegna ad un’impietosa subalternità.
Il quarantasettesimo rapporto del Censis, il più prestigioso istituto di analisi e ricerca sociale insieme all’Istat, fotografa la condizione di declino che stiamo vivendo.
L’Italia è un paese sull’orlo di una crisi di nervi. Al bivio tra collassamento definitivo e una qualche chance di ripresa. Molto timida, quest’ultima. Di certo non tornerà più ad essere quello che era riuscito a divenire a suo tempo, una potenza economica e commerciale mondiale. Il problema è però di cominciare a capire cosa sarà di qui in avanti, in un mercato internazionale che altrimenti ci consegna ad un’impietosa subalternità.
Il quarantasettesimo rapporto del Censis, il più prestigioso istituto di analisi e ricerca sociale insieme all’Istat, fotografa la condizione di declino che stiamo vivendo. Parla di una società insipida, priva di gusto, ripiegata su di sé, dove pure permangono ancora alcune spinte vitali che, tuttavia, non trovano nessuna sponda, men che meno tra le istituzioni politiche e amministrative.
Non c’è stato il crollo che certuni prefiguravano, magari compiacendosi di tale prospettiva. Piuttosto, negli ultimi due anni, dopo la svolta del novembre del 2011, con il commissariamento di fatto dell’esecutivo Berlusconi e la sua sostituzione con i tanto sopravvalutati «tecnici», è sopraggiunta una logica di galleggiamento, dove la sopravvivenza sembra un po’ per tutti – imprese, famiglie, individui – l’unico, vero e autentico orizzonte possibile. All’origine di questo comune sentire c’è lo sfaldamento del ceto medio, quel corpo socialmente e culturalmente eterogeneo, intorno al quale le società a sviluppo avanzato hanno, fino a due o tre decenni fa, costruito non solo le loro fortune ma anche la considerazione di sé, ovvero un’immagine condivisa e diffusa di benessere e sicurezza. La coesione sociale, da questo punto di vista, è stata messa a dura prova poiché sono le sue stesse architravi ad avere subìto l’erosione determinata dal cambiamento che sta attraversando i mercati mondiali.
Il quale in Italia si sta rivelando come una frusta che colpisce sempre più duramente la viva carne di molti connazionali. Con una frequenza inquietante, segnando così il declassamento di una parte degli italiani che, un tempo non troppo lontano, credevano invece di avere raggiunto la soglia grazie alla quale lo standard di vita raggiunto non sarebbe stato più messo in discussione. Politicamente, segnala il Censis, il Paese deve nel medesimo tempo fare fronte a due condizioni che si sono imposte su tutti e tutto: la sospensione delle attività di una parte consistente della politica, in ciò supplita dagli interventi continui della Presidenza della Repubblica, all’interno di un gioco di ruoli dove la prima ha temporaneamente consegnato alla seconda la responsabilità di fare scelte decisive; la dichiarazione, a partire dal governo, di uno stato di emergenza permanente, in ragione del quale ridurre o comunque ridimensionare una parte delle garanzie sociali ed economiche legate al welfare state. Dall’una e dall’altra opzione è derivato il mantra della «stabilità» come esigenza assoluta, nel nome della quale sacrificare ogni ulteriore scelta.
Da ciò, rilevano gli estensori del rapporto, deriva però anche una considerevole dissipazione di energie e di opportunità. Il Paese, perdurando questo cliché, rischia di essere condannato ad una «condizione di incertezza senza prospettive di élite» capaci di offrirgli nuovi orizzonti e mete perseguibili. Al di là dei crudi dati economici, che segnalano come sia andato approfondendosi il divario tra quel dieci per cento della popolazione che possiede più della metà delle ricchezze nazionali e la parte restante, che si divide quel che rimane della torta, ci sono alcuni deficit di fondo, in quanto tali quindi strutturali, che pesano come una cappa su tutta la collettività.
Il primo di essi, indicando la cristallizzazione del circuito di intervento pubblico, richiederebbe una radicale revisione dei sistemi di copertura sociale, oggi fortemente sbilanciati nel tutelare i già garantiti a fronte dell’indifferenza ai destini degli altri.
Il Censis segnala come peraltro si registri una continua crescita del welfare privato, pagato di tasca propria, così come di quello comunitario (attraverso il volontariato e l’intervento degli enti territoriali), di quello aziendale e di quello associativo. Un segno che all’offerta universalistica in forte difficoltà di bilancio va sostituendosi, o comunque affiancandosi, sempre più spesso quella proposta da soggetti diversi dallo Stato.
Tra l’altro è proprio in questi settori che negli ultimi anni si sono registrati incrementi nel numero dei posti di lavoro, a fronte, invece, di una decrescita, che in alcuni casi si è trasformata in autentica caduta, nei comparti più tradizionali della produzione industriale e dei servizi. Un secondo àmbito è quello dell’economia digitale. Decantata da molti soloni come la soluzione a tutti i problemi delle moderne società a sviluppo avanzato, la net-economy ha registrato in Italia un impatto meno corposo ma destinato a perdurare nel corso del tempo.
Si caratterizza, tra l’altro, per essere composta da molti giovani, con un buon grado di formazione e di disponibilità all’innovazione e all’esperienza, di contro a quanto si registra nell’economia dei servizi alla persona, dove invece si addensano lavoratori più anziani e con un minore livello di istruzione. Tralasciando le diagnosi moralistiche, che altrimenti rischiano di inchiodare il Paese a valutazione senza prospettiva, il rapporto pone in rilievo come ciò che oggi stia mancando in Italia sia la «connettività», ovvero la capacità di costruire legami e scambi di risorse tra individui e imprese, con potenzialità interessanti ma privi di aiuti che dovrebbero essergli forniti per posizionarsi proficuamente dentro reti di relazioni virtuose.
Le istituzioni pubbliche, che per loro natura dovrebbe svolgere proprio tale ruolo, ne sono completamente incapaci, in quanto «autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare». Forse il nocciolo della crisi, con le sue tante drammatizzazioni, sta in ciò. Il responso non è quindi del tutto negativo, non recita il de profundis per la società italiana, ma indica come in assenza di correttivi radicali, il rischio è che tutto si incisti su di sé, traducendosi in un blocco completo del Paese.
Claudio Vercelli