Le resistenze degli industriali rispetto alle domande di cambiamento che attraversavano la società italiana nei primi anni Sessanta erano molte. Di lì a non molto, il ’68 studentesco prima e le lotte sindacali ed operaie dell’anno successivo avrebbero rivoltato il Paese come un calzino.
Ma rimaniamo ancora a qualche anno prima. All’epoca, il timore nutrito dall’Ance, che costituiva la roccaforte di quel conservatorismo politico e culturale fatto proprio da buona parte della Confindustria, era che l’unificazione socialista – avviata con la convergenza tra il Psi e il Psdi nel 1966, dopo i governi di centro-sinistra e in concomitanza alla crescita elettorale dei comunisti – potesse fortemente incidere sul quadro politico.
Le resistenze degli industriali rispetto alle domande di cambiamento che attraversavano la società italiana nei primi anni Sessanta erano molte. Di lì a non molto, il ’68 studentesco prima e le lotte sindacali ed operaie dell’anno successivo avrebbero rivoltato il Paese come un calzino.
Ma rimaniamo ancora a qualche anno prima. All’epoca, il timore nutrito dall’Ance, che costituiva la roccaforte di quel conservatorismo politico e culturale fatto proprio da buona parte della Confindustria, era che l’unificazione socialista – avviata con la convergenza tra il Psi e il Psdi nel 1966, dopo i governi di centro-sinistra e in concomitanza alla crescita elettorale dei comunisti – potesse fortemente incidere sul quadro politico.
Lo sviluppo (sia pure tra non pochi problemi, alcune incomprensioni e diverse competizioni) dei rapporti fra le tre confederazioni sindacali – che ne potenziava la capacità contrattuale – era visto come fumo negli occhi dalla controparte padronale.
Tanto più da quella edile, abituata a muoversi in un contesto dove la debolezza degli interlocutori era un fatto ovvio, dato per scontato.
Nel marzo del 1966 la Feneal organizzò a Torino una Conferenza nazionale dell’edilizia, dove il sindacato fece il punto della situazione. Malgrado la fase di grande sviluppo del Paese, che aveva caratterizzato tutta la seconda metà degli anni Cinquanta e il periodo seguente, le condizioni del settore edile erano più che critiche. Inerzialità nel processo produttivo, dove nessuna reale innovazione era stata introdotta; mancanza di programmazione del settore pubblico e, ancor più, in quello privato; sostanziale degrado tecnologico che consisteva in una evidente obsolescenza dei sistemi produttivi dinanzi alla forte meccanizzazione in corso in altri Paesi; sfruttamento della forza lavoro; assenza di una qualsiasi cultura della sicurezza e della trasformazione; ricerca esasperata del profitto facile e immediato; permanenza di un’illegalità diffusa, a partire dallo sfruttamento del lavoro nero, erano fra le tante cause di un vero e proprio declino del settore medesimo che in pochi anni aveva perso mezzo milione di posti di lavoro.
Un paradosso, se si pensa che quel periodo, che pure scontava già le prime difficoltà con lo sboom economico del 1964, era stato caratterizzato da una forte evoluzione delle potenzialità produttive italiane. Anni d’oro, in buona sostanza, che in edilizia avevano reso ancora più ricchi quelli che già lo erano in partenza, incentivando e premiando le attività speculative di cui erano titolari, mentre il comparto nel suo insieme era rimasto privo di regole e, quindi, di prospettive.
Permaneva poi il paradosso che, a fronte del grande numero di costruzioni che stavano affollando le aree urbane moltissimi italiani rimanessero nella condizione di non potersi permettere un’abitazione. Le stime della Feneal indicavano in 25 milioni di stanze cantiere feneal 11 S TORIA D E L S INDACATO 5 • Maggio 2013 il fabbisogno reale del Paese. Dati alla mano, le previsioni indicate dai governi non andavano oltre al soddisfacimento del venti per cento della domanda.
Le migrazioni interne al Paese, in atto dal decennio precedente, costituivano poi una vera e propria sfida urbanistica, culturale e civile. Se le città del nord andavano popolandosi e nuovi quartieri nascevano e lievitavano al di là di qualsiasi logica di programmazione (e quindi in totale assenza di servizi), i centri urbani del sud subivano una non meno repentina trasformazione, con la perdita di quella parte della popolazione più giovane ed attiva. Prevaleva, allora come oggi, l’atteggiamento del “lasciar fare”, dell’affidarsi alle circostanze del caso, del pensare che le cose si sarebbero aggiustate da sé (o che potevano essere abbandonate ai processi spontanei), laddove gli industriali temevano qualsiasi indirizzo di programmazione come una sorta di epidemia di peste.
In condizioni non dissimili versavano anche l’edilizia scolastica e quella sanitaria.
Se le domande sociali stavano aumentando, le risposte erano più che insufficienti, o colpevolmente assenteiste.
Il Paese stava cambiando ma i gruppi dirigenti fingevano di non rendersene conto. Dominava il paternalismo più esasperato di cui il partito di maggioranza relativa, la Democrazia Cristiana, era e rimaneva il vero beneficiario politico.
Se questa era la cornice di riferimento, il quadro economico premeva in altro senso. La paralisi del mercato delle costruzioni non era infatti dovuta a cause occasionali ma ad un sistematico squilibrio tra domanda ed offerta, fra il tipo di alloggi costruiti, il loro costo e le richieste dei consumatori in rapporto alle loro capacità finanziarie. La politica del credito bancario, inoltre, non aveva colto il mutamento della domanda e faticava ad accordarsi alle richieste di mutui.
A ciò si affiancavano ancora altre considerazioni, significative nella loro natura: gli investimenti privati si erano più che dimezzati nel quadriennio 1963-1966; l’intervento pubblico, invece, languiva, anche perché doveva iniziare a misurarsi con i primi problemi di compatibilità di bilancio, una questione che sarebbe poi esplosa vent’anni dopo.
Il confronto con i partner europei era impietoso. Su cento alloggi costruiti nel 1964 la percentuali di quelli realizzati con il contributo dello Stato era stata dell’88% in Francia, del 65% in Belgio, del 55% in Olanda, del 40% in Germania e del 5,6% in Italia.
Nel decennio 1951-1961 la spesa pubblica, nel complesso degli investimenti nell’edilizia, ammontava al 69% in Olanda, al 47% in Francia, al 27% in Germania e al 13% in Italia. Da ultimo, il primato negativo nel rapporto tra retribuzioni e affitti: a fronte di un’incidenza del 5,2% in Francia, del 7,3 in Germania, del 9,2 in Gran Bretagna, nel nostro paese raggiungeva e superava il 16%. Una società di fantasmi, in buona sostanza, o forse di sudditi.
Claudio Vercelli