La firma del contratto del 1966 sancì l’uscita dal tunnel della crisi in cui il lavoro edile si era trovato negli ultimi quattro anni. Non per questo, tuttavia, sanò tutti i problemi che erano presenti nel comparto. Più in generale aveva avviato una stagione sindacale che si espresse, nei mesi successivi e poi nei tre anni a venire, con particolare intensità e con un impatto senza pari nella storia del nostro Paese. L’anno dopo, infatti, si pervenne alla firma di buona parte dei contratti in scadenza, dai chimici ai metalmeccanici dipendenti da aziende a partecipazione pubblica, dai lavoratori del settore automobilistico a quelli dell’industria privata.
La firma del contratto del 1966 sancì l’uscita dal tunnel della crisi in cui il lavoro edile si era trovato negli ultimi quattro anni. Non per questo, tuttavia, sanò tutti i problemi che erano presenti nel comparto. Più in generale aveva avviato una stagione sindacale che si espresse, nei mesi successivi e poi nei tre anni a venire, con particolare intensità e con un impatto senza pari nella storia del nostro Paese. L’anno dopo, infatti, si pervenne alla firma di buona parte dei contratti in scadenza, dai chimici ai metalmeccanici dipendenti da aziende a partecipazione pubblica, dai lavoratori del settore automobilistico a quelli dell’industria privata.
Il segno dell’evoluzione dei tempi era dato, tra le altre cose, anche dai risultati incoraggianti che la Uil ottenne nelle elezioni per le Commissioni interne della Fiat, dove proprio nel 1966 raggiunse il 31,7% dei voti con ben 76 seggi. Alla fine di quell’anno a Milano fu ospitata la Conferenza europea dei sindacati dell’edilizia, un fondamentale momento di confronto e di sintesi tra le organizzazioni aderenti all’ICFTU, l’International Confederation of Free Trade Unions, la struttura antecedente alla Confederazione europea dei sindacati, nel cui ambito avrebbero poi militato non solo la Uil ma anche la Cisl e la Cgil. All’epoca, infatti, dopo la scissione che era avvenuta nel 1949 all’interno della World Confederation of Trade Unions, di osservanza comunista, la Cgil era rimasta esclusa dalle attività della Confederazione internazionale, alla quale invece la Uil aveva aderito il 1° gennaio 1952.
Le divergenze che avevano portato quasi un ventennio prima alla separazione erano state molte, riguardando questioni di fondo, a partire dal bivio tra cambiamento attraverso le riforme o trasformazione per via rivoluzionaria.
La questione, va da sé, non era solo di ordine dottrinario ma richiamava il rapporto tra democrazia, consenso e mutamento politico e sociale. La dipendenza da Mosca costituiva poi un fattore di pregiudizio intollerabile. Di acqua sotto i ponti ne era passata molta, e non del tutto inutilmente. Dal duro confronto che aveva diviso l’Ovest liberaldemocratico dall’Est comunista durante gli anni dello stalinismo imperante, si era transitati, non senza grandi difficoltà, verso un clima più collaborativo.
Era stato il periodo della cosiddetta «distensione », che aveva comportato, quanto meno, un’attenuazione degli elementi più aggressivi del contrasto tra il modello occidentale e quello orientale.
Di ciò, sia pure in maniera non sempre immediatamente tangibile, avevano goduto anche i sindacati. Si era lontani dalla ricomposizione poiché le prospettive rimanevano diverse; tuttavia, alcuni passi di riavvicinamento c’erano stati. La Federazione sindacale mondiale, alla quale faceva riferimento la Cgil, pur rimanendo un soggetto a sé, non poteva essere più considerata come una figura estranea, aliena dal panorama delle attività sindacali nazionali. Una parte degli aderenti alla ICFTU non erano tuttavia di questo avviso, a partire dal suo maggiore leader continentale, Harm Buiter, che ne presiedeva il segretariato europeo, per il quale nessuna consultazione con i «cugini comunisti» era accettabile.
Men che meno forme di scambio, comunicazioni e collaborazioni continuative.
Come si diceva, la seconda metà degli anni Sessanta era però contraddistinta da un tale mutamento di clima, a livello internazionale così come nei singoli Paesi europei, che non poteva non essere tenuto in considerazione.
La Uil di Viglianesi coglieva i cambiamenti che stavano attraversando le società, ed in particolare quella italiana. La Feneal tradusse questa sensibilità nella necessità di superare steccati storici la cui rilevanza stava iniziando a venire meno. Di fatto, pur mantenendo i profili culturali e politici che ne differenziavano il modo di essere, Feneal, Fillea e Filca già da tempo si trovavano, all’atto concreto, ad adoperarsi insieme per comuni obiettivi.
Tre erano i terreni di incontro: il miglioramento della qualità del lavoro e della retribuzione delle maestranze edili; la riqualificazione dell’industria dell’edilizia e l’indirizzo verso obiettivi di sviluppo dell’intero settore, valutando l’impatto sociale del suo operato; la democrazia sindacale e le forme della contrattazione.
Luciano Rufino, segretario nazionale della Feneal, si incaricò nella conferenza milanese di ribadire l’insostenibilità di atteggiamenti pregiudizialmente contrari a qualsiasi contatto tra le organizzazioni sindacali. In Italia, a partire dalle lotte contrattuali, l’edilizia aveva già sperimentato la convergenza, non più occasionale, su piattaforme comuni.
I rapporti con le controparti datoriali erano ispirati ad una sostanziale unitarietà.
Il fatto che il giudizio sull’esperienza dei governi di centro-sinistra dividesse la Feneal e la Filca dalla Fillea non poteva più costituire un impedimento alla condivisione di altri terreni di lavoro. Le preoccupazioni per il futuro della democrazia in Italia erano poi non meno comuni fra le tre federazioni edili, lasciando da parte la competizione che le aveva animate. Così come l’attenzione per il mutamento che si stava misurando nella composizione della forza lavoro e nelle aspettative che questa andava esprimendo. Il tema della democrazia del lavoro e nei luoghi di lavoro stava assumendo una rilevanza che, fino ad allora, non aveva conosciuto.
Anche nel cantiere l’operaio non si pensava solo più come un esecutore terminale bensì come una parte di un processo più ampio, quello della produzione di ricchezza, che lo chiamava in causa nella coscienza e nella dignità di sé.
Se questo era il quadro nazionale la conferenza di Milano sancì tra i sindacati edili e del legno dei sei Paesi che avevano istituto la Comunità economica europea, l’intenzione di portare avanti un programma comune, concertato a livello sovranazionale. Per tale ragione il documento finale richiamava esplicitamente la necessità di battersi per politiche del pieno impiego, per il miglioramento dei circuiti di formazione e istruzione professionale, per la tutela dei lavoratori emigrati, per l’armonizzazione delle condizioni di vita e di lavoro degli edili in tutto l’ambito comunitario, per un salario annuo garantito.
L’ottica di fondo era volta al superamento della dimensione puramente nazionale.
Si iniziava a capire che l’Europa non era solo un continente dal punto di vista geografico ma anche una nuova entità politica, uno spazio comune, sia pure ancora in via di costruzione, dove i sindacati avrebbero dovuto svolgere un ruolo fondamentale.
L’Europa era una opportunità, in altri termini. Ma affinché fosse colta richiedeva un mutamento di condotte e, soprattutto, di approcci ai problemi del lavoro, fatto che anche le domande espresse sempre più tumultuosamente dalla società civile si apprestavano a fare proprio.
Il 1968 era ormai alle porte.
Claudio Vercelli