La fine degli anni Sessanta fu segnata da una lunga stagione di lotte studentesche e sindacali. Si trattò di un’epoca unica nella storia del nostro Paese, per molti aspetti irripetibile. Non solo: sull’onda delle conquiste di quei tempi, i lavoratori vedevano mutare aspetti significativi della loro esistenza e della propria identità. Si abbattevano muri divisori che fino a pochi anni prima erano parsi invalicabili.
Il lavoro, da prestazione mercificata, dannazione pagata pochi denari, diveniva elemento di orgoglio, appartenenza e di rivendicazione.
Nei luoghi della produzione ma anche in quelli di vita, al di là del tempo che al lavoro medesimo veniva dedicato. Era questo, tuttavia, solo un aspetto della riconfigurazione dei rapporti di forza in corso in Italia come in Europa. Poiché sul piano politico entravano in gioco anche altri elementi, non meno rilevanti.
La fine degli anni Sessanta fu segnata da una lunga stagione di lotte studentesche e sindacali. Si trattò di un’epoca unica nella storia del nostro Paese, per molti aspetti irripetibile. Non solo: sull’onda delle conquiste di quei tempi, i lavoratori vedevano mutare aspetti significativi della loro esistenza e della propria identità. Si abbattevano muri divisori che fino a pochi anni prima erano parsi invalicabili.
Il lavoro, da prestazione mercificata, dannazione pagata pochi denari, diveniva elemento di orgoglio, appartenenza e di rivendicazione.
Nei luoghi della produzione ma anche in quelli di vita, al di là del tempo che al lavoro medesimo veniva dedicato. Era questo, tuttavia, solo un aspetto della riconfigurazione dei rapporti di forza in corso in Italia come in Europa. Poiché sul piano politico entravano in gioco anche altri elementi, non meno rilevanti.
I governi che si succedettero a cavallo tra quei due decenni, infatti, non brillavano di certo per spirito riformistico. L’esperienza del centro-sinistra si era esaurita anzitempo, letteralmente strozzata nella culla. Se con essa si voleva realizzare un significativo mutamento negli equilibri economici e nei ruoli politici italiani, permettendo al Paese di fare un netto passo in avanti e aggiungendo allo sviluppo in corso anche un progresso culturale che, fino ad allora, era mancato, di fatto l’intenzione abortì velocemente.
A pagare un prezzo politico gigantesco fu il Partito socialista, che aveva giocato tutte le sue carte su quell’esperimento. Ma anche il sindacato dovette riformulare la sua agenda di priorità.
Date queste premesse, le conseguenze furono ancora peggiori. Poiché a lungo l’atmosfera del Paese fu inquinata dai rischi di una svolta autoritaria, una sorta di spada di Damocle che sembrava pendere tra il capo e il collo di una collettività che stava invece conoscendo grandi trasformazioni. Le quali, nel decennio successivo, si sarebbero riprodotte nei costumi, nelle abitudini ma anche nella politica, nel diritto e nella stessa economia.
Peraltro, la fine degli anni Sessanta, ancorché caratterizzata da questi molteplici e a tratti contraddittori aspetti, non era da leggersi in maniera uniforme neanche sul piano produttivo. Dalle secche nelle quali ci si era incagliati tra il 1963 e il 1966, soprattutto in edilizia, quando l’attività del settore aveva conosciuto una netta contrazione, si era usciti con soluzioni abborracciate. Nessuna programmazione, nessuna progettazione, nessuna previsione ma solo l’affidarsi alle circostanze del momento, nella convinzione che i fatti, da soli, avrebbero rimesso in movimento un motore imballatosi dinanzi a nodi strutturali dello sviluppo collettivo. Se alla fine del 1967 la stessa «programmazione» era divenuta legge dello Stato, all’atto concreto ne conseguì quindi ben poco. Mentre la Feneal, insieme agli altri sindacati dell’edilizia, ai quali la univa un’unità che fino a poco tempo prima era invece mancata, sollecitava l’attuazione dei tanti provvedimenti che rimanevano sulla carta (ed in particolare il sostegno all’edilizia popolare, la legge 167 e la rapida approvazione di una normativa a modifica della legge urbanistica che risaliva al 1942, adottata in piena guerra), concretamente si procedette attraverso il ricorso a misure tampone o di emergenza.
Questo atteggiamento, in sé perdurante, non rispondeva solo all’impreparazione del momento ma era parte di un disegno ben più corposo. I ceti possidenti, i gruppi industriali più forti, la parte datoriale, insieme alla propria rappresentanza politica, intendevano escludere dai processi decisionali la controparte sindacale. Non di meno, concepivano le concessioni che erano costretti a fare dinanzi alla pressione sociale, come revocabili nel momento in cui si sarebbero poste le concrete condizioni materiali per farlo. Il più presto possibile, e magari adottando scorciatoie. Così come andavano pensando non pochi esponenti del mondo delle costruzioni, da sempre tra le parti più retrive del “padronato”. Peraltro, la fine del decennio pose l’intero mondo edile, ossia lavoratori, sindacati ed imprese, dinanzi a problemi nuovi.
Quanto meno, a dovere affrontare i propri compiti da angolazioni nuove.
Per il sindacato edile il vero punto critico era il nesso che intercorreva tra occupazione e accesso all’edilizia popolare.
Per più aspetti l’una e l’altra costituivano le due facce di una medesima medaglia.
Si trattava ben più di una battaglia economica, rinviando semmai all’accesso ai diritti sociali che la Costituzione richiamava, rimanendo però essi stessi per buona parte sulla carta e, quindi, inattuati.
La ripresa produttiva di quegli anni infatti, aveva avuto tra le altre ragioni anche l’incremento della domanda di abitazioni di lusso o comunque per i ceti medi. Che misuravano ora nelle loro tasche, fattesi affluenti, una capacità di acquisto che fino a non molto tempo prima gli era mancata. In questo contesto, favorevole alle imprese (e ai profitti), persisteva e si rinnovava la questione delle abitazioni per i ceti più modesti, che costituivano l’ossatura della classe operaia. La legge di programmazione ambiva a dare, in prospettiva, una risposta a tale necessità, che si configurava come una vera e propria emergenza sociale e democratica.
La legge del 6 agosto 1967, la numero 765, conosciuta come «legge ponte », poiché avrebbe dovuto servire come una passerella per collegare la vecchia normativa con quella (ancora assente) di riforma del sistema urbanistico, era pensata per cercare di fare fronte alle persistenti difficoltà di formazione di piani particolareggiati. Tra i suoi contenuti vi era l’introduzione di standard minimi di servizi, la fissazione di norme di salvaguardia per il territorio non pianificato, la semplificazione nelle procedure di approvazione dei piani urbanistici, la sostituzione di una semplice relazione di spesa alla dimostrazione di completa copertura finanziaria delle opere prevista e altro ancora.
Materie apparentemente tecniche, ma strettamente connesse alla complessa intelaiatura amministrativa che supportava il circuito delle costruzioni. C’era un’emergenza e occorrevano risposte celeri.
Nel mentre, tuttavia, la Corte costituzionale, con una sentenza che raccolse i favori del fronte conservatore, dichiarò illegittimi alcuni aspetti della legge urbanistica del 1942, di fatto costringendo una parte del settore edile alla precarietà dettata dalla decretazione sostitutiva d’emergenza. Al di là delle motivazioni costituzionalistiche che avevano portato la Magistratura a tale decisione, rimaneva il fatto che l’applicazione del diritto, in Italia, scontava non solo una palese astrattezza (che agevolava chi dietro di essa si nascondeva per meglio tutelare i propri personali interessi) ma ripeteva i canoni dell’indifferenza rispetto ai bisogni della collettività.
La Feneal, insieme alla Fillea e alla Filca, rispose polemicamente alle scelte della Corte, a cui peraltro imputava l’essersi fatta in qualche modo depositaria di aspettative molto distanti da quelle espresse dalla società. Nell’estate del 1968 iniziò così una vasta azione, articolatasi in tutto il Paese, per affermare l’esigenza di nuovi e immediati provvedimenti che, muovendosi verso la realizzazione di una radicale e innovativa riforma urbanistica, rispondessero alle innumerevoli richieste che arrivavano dal mondo del lavoro. Le trasformazioni che avevano coinvolto il paesaggio urbano, con lo sviluppo dei grandi agglomerati industriali, il trasferimento nelle metropoli del Nord di un grande numero di lavoratori e delle loro famiglie, e di conseguenza la crescente domanda di beni e di servizi pubblici, la creazione di quartieri che non fossero dei ghetti ma soprattutto dei luoghi dove vivere e socializzare, lo sviluppo del sistema scolastico (più scuole ma anche un maggiore numero di studenti per più anni) come di quello sanitario, la presenza di verde laddove predominava invece il cemento, erano tra i tanti fattori che spinsero il sindacato a scendere in campo ancora una volta. Di fatto questa azione lo investì appieno di un ruolo non solo di contrattazione, quale quello che aveva rivestito nei due decenni trascorsi, ma di una funzione di proposta e, quindi, di programmazione. Per la Feneal ciò implicava ragionare in termini diversi rispetto al passato. Rivedendo anche aspetti significativi di sé, della propria organizzazione, del ruolo sociale che aveva, passo dopo passo, assunto.
Se nel 1951 nasceva sull’onda del bisogno di differenziarsi dalla presenza comunista, all’interno di un sistema politico fortemente diviso e di un sindacato dove l’impronta egemonica del Pci era pronunciata, e se negli anni successivi aveva seguito il difficile percorso delle forze riformiste fino alla crisi del centro- sinistra, ora subentravano altri scenari.
Ad essere cambiata era soprattutto la società italiana. Non più quella disegnata, a suo tempo, dallo scrittore Giovanni Guareschi, divisa tra il campanile della chiesa e la sezione di partito, ma una moltitudine in perenne cambiamento, con un radicamento sempre più metropolitano.
Il Paese era un’economia potente, parte del consesso delle nazioni più ricche. Per tutto il 1968 anche la Feneal profuse, insieme agli altri sindacati di categoria, risorse e tempo per due battaglie di fondo: la riforma del sistema pensionistico e quella contro le gabbie salariali. D’altro canto, l’edilizia, al pari dell’agricoltura, era direttamente chiamata in causa nei sistemi sperequativi che erano ancora in vigore.
Claudio Vercelli