Un universo di interessi, figure e identità a sé, che inevitabilmente si incrocia con la storia del sindacato, come di quella del movimento dei lavoratori, nella sua specifica natura di controparte, è quello dei costruttori. Per meglio dire, delle loro associazioni di categoria e delle politiche che, di volta in volta, hanno portato avanti.
Mentre nel 1944, a guerra ancora in corso, era nata, sulle ceneri del regime fascista, nella parte d’Italia liberata, l’Agere, l’Associazione generale per l’edilizia, nel 1946 aveva successivamente visto la luce l’Associazione nazionale costruttori edili.
Agere e Ance si spartivano i ruoli di maggiore rilevanza, svolgendo le funzioni di rappresentanza collettiva.
Un universo di interessi, figure e identità a sé, che inevitabilmente si incrocia con la storia del sindacato, come di quella del movimento dei lavoratori, nella sua specifica natura di controparte, è quello dei costruttori. Per meglio dire, delle loro associazioni di categoria e delle politiche che, di volta in volta, hanno portato avanti.
Mentre nel 1944, a guerra ancora in corso, era nata, sulle ceneri del regime fascista, nella parte d’Italia liberata, l’Agere, l’Associazione generale per l’edilizia, nel 1946 aveva successivamente visto la luce l’Associazione nazionale costruttori edili.
Agere e Ance si spartivano i ruoli di maggiore rilevanza, svolgendo le funzioni di rappresentanza collettiva.
Di fatto, pur essendo state costituiti in rottura con il sistema fascista, che imbrigliava nel circuito corporativo anche l’imprenditoria, i quadri dirigenti in età repubblicana dei due gruppi erano in parte filiazione della trascorsa esperienza politica, avendo trovato nel fascismo medesimo un sistema di potere comunque sensibile alle istanze datoriali.
Nella filiera politico-organizzativa di Agere e Ance prevalevano quindi gli esponenti delle dinastie dei costruttori, a partire dalle grandi famiglie romane, che spesso si erano trovate in rapporti di reciprocità con segmenti del vecchio regime. Peraltro, l’intero circuito associativo edile, e non solo quello imprenditoriale, era il punto di congiunzione fra industria delle costruzioni, banche, istituti assicurativi e finanziari, componendo in tal modo un reticolo di interessi che avrebbe poi condizionato molto lo sviluppo dell’intero comparto così come delle politiche pubbliche in materia. In mezzo ad Agere e Ance, si muoveva poi un piccolo pulviscolo associazionistico di secondaria rilevanza, destinato a non condizionare oltre misura le sorti del comparto.
Di fatto, tuttavia, il sindacato delle imprese, nelle sue diverse diramazioni, ha faticato a lungo nel rappresentarne integralmente gli interessi e le ragioni. Dal dopoguerra in poi si è infatti venuta costituendo una situazione dove, al di là delle strutture formalmente esistenti, due erano i grandi poli sui quali si raccordavano le istanze più sensibili e maggiormente rilevanti, soprattutto sul versante politico. Tra di loro, quindi, spesso in forte competizione.
Da una parte le piccole e medie imprese, più e meglio raccolte dentro le associazioni di categoria. Dall’altra le grandi aziende, dotate di una forza di contrattazione autonoma, in grado di tutelarsi da sé poiché capaci di accedere ai mercati più appetitosi così come al settore dei lavori pubblici senza intermediazioni di sorta. I differenziali strategici tra i due agglomerati d’interessi sono da sempre legati al sistema delle relazioni intrattenute con il potere centrale, la capacità di innovazione tecnologica, l’esperienza in mercati differenti e alternativi, la possibilità di usare le maestranze con una flessibilità che le piccole imprese, allora come oggi, rivelano non avere, vivedo queste ultime rapporti di sudditanza, o comunque di dipendenza, dal grande capitale edile.
Tra le due componenti del mondo dei costruttori, quindi, non si può parlare storicamente di coincidenza di interessi. L’immagine di un “padronato” unitario, nell’edilizia, è più una sorta di riflesso condizionato, creato dalla necessità di qualificare un interlocutore identificabile, che non un riscontro oggettivo. Anche se la capacità di fare catenaccio, al tavolo delle trattative, si è spesso rivelata sorprendente. I contrasti tra mondo delle piccole e medie imprese e circuito delle grandi strutture aziendali, queste ultime per l’appunto a sé stanti, si è rivelato attraverso i maggiori tornanti dell’evoluzione storica del comparto delle costruzioni in età repubblicana.
Così nei primi anni Sessanta, nel pieno del boom economico, quando le piccole imprese a bassa tecnologia, dinanzi agli aumenti salariali generalizzati offerti ai lavoratori, si trovarono ben presto in difficoltà, misurando le differenze che intercorrevano con le capacità innovative offerte dalle aziende di maggiori dimensioni. Un ulteriore momento di divaricazione si ebbe nel decennio successivo, quando andò profilandosi il passaggio ad un diverso assetto produttivo, determinato dalla compenetrazione tra grandi imprese e i circuiti immobiliaristici.
Se le piccole imprese, con l’appoggio dei proprietari fondiari ed edili minori, legati al modello di sviluppo trascorso, erano ancorate alla difesa di una vecchia impostazione nello sviluppo del settore, le grandi aziende guardava no oltre, propendendo inoltre per fagocitare una parte delle prime all’interno delle loro strutture.
Al di là delle differenze oggettive di interessi, tuttavia, qual è stato l’indirizzo politico che è prevalso nelle diverse associazioni di categoria, creando e ritessendo rapporti e legami altrimenti tendenzialmente conflittuali? Nelle posizioni generali assunte nel corso del tempo dalle diverse associazioni dei costruttori si avverte la persistenza di una contraddizione fra le esigenze di modernizzazione del comparto, seguendo in ciò l’evoluzione delle imprese metalmeccaniche come delle richieste provenienti dai mercati, e il bisogno, non meno pressante per la maggioranza delle imprese, di rimanere ancorati ad un sistema di garanzie in grado di assolvere a funzioni strettamente anticongiunturali: bassa qualificazione della manodopera, scarsa tassazione, limitata reinvestimento degli utili nell’ammodernamento del ciclo produttivo, politica di defiscalizzazione e di facilitazione creditizia.
Il confronto, e a volte lo scontro, tra queste due opposte visioni del proprio agire, e quindi del mercato, si rifletteva quindi nelle richieste che le associazioni imprenditoriali andavano avanzando. A fronte del riconoscimento della necessità, se non dell’urgenza, di razionalizzare l’intero comparto, quindi di avere piani regolatori chiari e condivisi, di adoperarsi per una politica dello sviluppo urbanistico in sintonia con i bisogni della collettività, a conti fatti subentravano poi spinte di ben altra natura. Il timore per le «riforme» e le politiche riformiste diventò, con la seconda metà degli anni Cinquanta, un cavallo di battaglia dei costruttori, i quali si arroccano ben presto dentro il fortilizio del conservatorismo più spiccato.
I punti di frattura erano lo sviluppo del cooperativismo in campo edilizio, visto come una minaccia agli interessi vitali del sistema produttivo privato; la partecipazione sindacale ai processi decisionali o, più semplicemente, alla contrattazione; l’incremento della tassazione, anche quando essa risultava essere tra le più tenui rispetto a tutta la parte restante d’Europa. Dopo di che, il rapido sviluppo dell’economia italiana in generale e dell’industria delle costruzioni in particolare impose comunque alle organizzazioni di categoria di confrontarsi con il repentino mutamento in atto, compiendo uno sforzo di elaborazione critica e di proposta. Se nei primi anni del dopoguerra fu l’Agere a svolgere un ruolo importante in tal senso, successivamente toccò al Cresme, il Centro di ricerche economiche, sociali, di mercato per l’edilizia, istituito nel 1962, assumere tale funzione.
Fu peraltro ancora l’Agere a proporre, negli anni Cinquanta, un Codice edile. Una serie di proposte elaborate in quel periodo, e nel decennio successivo, come i parcheggi obbligatori per ogni edificio, gli arretramenti degli edifici dal ciglio stradale, l’istituzione di un indice minimo di fabbricabilità su tutto il territorio nazionale e altro ancora anticiparono alcune norme che sarebbero poi state recepite nella legge ponte del 1967.
In realtà, nelle stesse associazioni imprenditoriali, che con gli anni Sessanta si trovavano sempre più spesso, sedute al tavolo delle trattative, a dovere contrattare con un sindacato la cui forza andava crescendo, gli interessi concreti finirono con il dissociarsi dalla capacità effettiva di cogliere ed interpretare il cambiamento sociale in atto.
Se in quest’ultimo caso l’élite dirigente dei costruttori rivelava la comprensione della trasformazione in corso nel Paese, e il suo riflettersi sul mercato edilizio, non altrettanto poteva dirsi della condotta concreta sul versante delle relazioni industriali, queste ultime improntate quasi sempre alla più netta contrapposizione nei confronti delle richieste della controparte. I costruttori, almeno fino agli anni Settanta, hanno infatti costituito una delle categorie industriali tra le più protette dalla politica.
Gli interessi aggregati di cui questi erano portatori non sono mai stati realmente intaccati dagli esecutivi e nelle legislature che si sono succedute, dall’Assemblea costituente in poi. Dietro a questa condizione di oggettivo privilegio si poneva peraltro la difesa ad oltranza del blocco immobiliare-edilizio, ossatura del potere della Democrazia Cristiana e della destra liberale per un lunghissimo periodo di tempo.
Questa condizione di scambio e connubio tra immobiliarismo e politica fu bene rappresentata da una figura storica quale quella di Salvatore Rebecchini, ingegnere, presidente dell’Ance, sindaco di Roma ininterrottamente dal 1947 al 1956, quasi un decennio di mandato nel corso del quale la capitale conobbe la «grande trasformazione», dai suoi critici interpretata anche e soprattutto come un nuovo «grande sacco», questa volta di natura cementizia. Più in generale, l’abitudine ad essere tutelati a prescindere, incentivò il già preesistente conservatorismo politico, tradottosi nell’ostilità dei molti nei confronti del centro-sinistra, contro il quale furono lanciati innumerevoli siluri per depotenziarne le aspettative e le attese riformiste; il favore per le politiche anticongiunturali, quand’anche esse risultarono, alla resa dei conti, inadeguate all’evoluzione del quadro economico; l’indisponibilità di fatto verso qualsiasi forma di programmazione urbanistica, malgrado enunciazioni di segno opposto sul piano della comunicazione pubblica; l’avversione ai provvedimenti sulle aree edificabili così come l’ostilità preconcetta verso le timide limitazioni legislative nei confronti dell’anarchia edilizia e così via.
Un quadro di scarsa perspicacia, in buona sostanza, che si sarebbe poi incontrato, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, con la lievitazione dei valori immobiliari, quest’ultimo fenomeno di natura tipicamente finanziaria, e con la decadenza del territorio italiano, sempre più costruito ma ben scarsamente fatto oggetto di manutenzione.
Claudio Vercelli