Alla crisi che attraversò l'intero settore edile, nella metà degli anni Sessanta, il padronato rispose cercando di promuovere un profondo processo di riorganizzazione del lavoro.
L'obiettivo era quello di accrescere i livelli di produttività, mantenendo pressoché inalterata la tradizionale struttura tecnologica.
Si trattava, quindi, di razionalizzare il ciclo produttivo con una forte parcellizzazione delle mansioni e un diverso tipo di utilizzo delle squadre di lavoro in cantiere.
Lo stesso lavoro del muratore, che presentava, per la sua specificità professionale, un maggiore spazio di discrezionalità, non intervenendo il più delle volte nessuna macchina, ma contando la perizia del singolo, fu a sua volta scomposto in operazioni specializzate, basate sull'esecuzione ripetitiva.
Alla crisi che attraversò l’intero settore edile, nella metà degli anni Sessanta, il padronato rispose cercando di promuovere un profondo processo di riorganizzazione del lavoro.
L’obiettivo era quello di accrescere i livelli di produttività, mantenendo pressoché inalterata la tradizionale struttura tecnologica.
Si trattava, quindi, di razionalizzare il ciclo produttivo con una forte parcellizzazione delle mansioni e un diverso tipo di utilizzo delle squadre di lavoro in cantiere.
Lo stesso lavoro del muratore, che presentava, per la sua specificità professionale, un maggiore spazio di discrezionalità, non intervenendo il più delle volte nessuna macchina, ma contando la perizia del singolo, fu a sua volta scomposto in operazioni specializzate, basate sull’esecuzione ripetitiva.
Alla crisi che attraversò l’intero settore edile, nella metà degli anni Sessanta, il padronato rispose cercando di promuovere un profondo processo di riorganizzazione del lavoro.
L’obiettivo era quello di accrescere i livelli di produttività, mantenendo pressoché inalterata la tradizionale struttura tecnologica.
Si trattava, quindi, di razionalizzare il ciclo produttivo con una forte parcellizzazione delle mansioni e un diverso tipo di utilizzo delle squadre di lavoro in cantiere.
Lo stesso lavoro del muratore, che presentava, per la sua specificità professionale, un maggiore spazio di discrezionalità, non intervenendo il più delle volte nessuna macchina, ma contando la perizia del singolo, fu a sua volta scomposto in operazioni specializzate, basate sull’esecuzione ripetitiva.
In altre parole, le imprese ancora una volta cercavano di recuperare il terreno perduto non incrementando gli investimenti, ma aumentando lo sfruttamento. Obiettivo che raggiunsero benché l’insieme delle attività nei cantieri risultassero ancora fortemente eterogenee. Infatti, a lavorazioni meccanizzate e razionalizzate (come lo scavo, i trasporti, la lavorazione del cemento) si accompagnavano lavorazioni basate prevalentemente su tecniche ancora tradizionali.
Nella ristrutturazione del ciclo produttivo edile contò anche il fatto che fosse incrementata la presenza di lavoratori a cottimo e di subappaltatori nelle fasi a valle della costruzione.
In generale, il sistema del subappalto funse egregiamente da strumento per indebolire le rivendicazioni dei lavoratori, spostando sui singoli operatori la realizzazione di importanti componenti del ciclo produttivo.
La crisi degli anni Sessanta aveva quindi interrotto un trend positivo di crescita dell’occupazione nel settore. Se nel 1951, secondo le rilevazioni Istat, vi lavoravano 1.108.700 elementi, divenuti ben 2.2089.600 nel 1964, con gli anni successivi si misurò una lenta, ma costante decrescita. Nel 1967 gli occupati in edilizia erano 1.902.700, di cui un milione e mezzo come lavoratori dipendenti. In generale l’attacco alla condizione operaia si misurò sotto più aspetti, uno dei quali era l’espulsione della forza lavoro dai cantieri.
Ma ad essa si legavano l’opera sistematica di contenimento salariale, l’aumento non concordato dei ritmi di lavoro, la diffusa violazione dei diritti contrattuali, lo svuotamento della contrattazione aziendale non meno che la prassi del pagamento sotto qualifica e «fuori busta». La Feneal denunciava inoltre l’ossessiva abitudine, da parte dei costruttori, di ricondurre le cause della crisi ai costi del materiale e del lavoro, evitando di riconoscere l’enorme quantità di profitti, derivati anche dall’incremento di valore delle aree fabbricabili.
L’interdipendenza e la reciprocità d’interessi tra le grandi aziende edili e le società finanziarie, queste ultime padrone dei terreni urbani ed edificabili, costituiva una saldatura potente, che strozzava ogni iniziativa autonoma. In generale i costruttori cercavano di negare o impedire qualsiasi autonomia di progettazione urbanistica al Governo, ponendo veti anche sulla capacità di legiferare del Parlamento. Il tutto si inquadrava in una ostilità preconcetta nei confronti del riformismo tiepidamente espresso dall’allora centro-sinistra.
Claudio Vercelli