Benché i provvedimenti riformistici pensati e realizzati da quel che restava dell'esperienza dei governi del centro-sinistra risultassero, alla resa dei conti, estremamente diluiti, quindi ben al di sotto di qualsiasi soglia di pericolosità per la controparte padronale, l'offensiva che questa mise in atto contro la loro attuazione risultò martellante. La fine degli anni Sessanta è ricordata, infatti, non solo per il tumulto delle lotte operaie e di quelle studentesche, per il repentino mutamento dei costumi, per la liberalizzazione progressiva di pensieri e condotte, ma anche per la risposta conservatrice, a tratti spesso autoritaria, di quel blocco di soggetti che, richiamandosi minacciosamente ad un «ordine» sociale da ricostituire, di fatto si adoperavano, a tratti anche illegalmente, per minare le basi dello sviluppo della democrazia.
Benché i provvedimenti riformistici pensati e realizzati da quel che restava dell’esperienza dei governi del centro-sinistra risultassero, alla resa dei conti, estremamente diluiti, quindi ben al di sotto di qualsiasi soglia di pericolosità per la controparte padronale, l’offensiva che questa mise in atto contro la loro attuazione risultò martellante. La fine degli anni Sessanta è ricordata, infatti, non solo per il tumulto delle lotte operaie e di quelle studentesche, per il repentino mutamento dei costumi, per la liberalizzazione progressiva di pensieri e condotte, ma anche per la risposta conservatrice, a tratti spesso autoritaria, di quel blocco di soggetti che, richiamandosi minacciosamente ad un «ordine» sociale da ricostituire, di fatto si adoperavano, a tratti anche illegalmente, per minare le basi dello sviluppo della democrazia.
Benché i provvedimenti riformistici pensati e realizzati da quel che restava dell’esperienza dei governi del centro-sinistra risultassero, alla resa dei conti, estremamente diluiti, quindi ben al di sotto di qualsiasi soglia di pericolosità per la controparte padronale, l’offensiva che questa mise in atto contro la loro attuazione risultò martellante. La fine degli anni Sessanta è ricordata, infatti, non solo per il tumulto delle lotte operaie e di quelle studentesche, per il repentino mutamento dei costumi, per la liberalizzazione progressiva di pensieri e condotte, ma anche per la risposta conservatrice, a tratti spesso autoritaria, di quel blocco di soggetti che, richiamandosi minacciosamente ad un «ordine» sociale da ricostituire, di fatto si adoperavano, a tratti anche illegalmente, per minare le basi dello sviluppo della democrazia.
Un segnale in tal senso, in campo edile, fu la campagna di stampa orchestrata contro il ministro dei Lavori pubblici, il socialista Giacomo Mancini, reo di avere cercato di introdurre elementi di programmazione e di gestione nella caotica evoluzione del quadro delle costruzioni e delle infrastrutture. Esisteva una vera e propria destra economica, ben presente nelle associazioni di categoria, ma ancora più diffusa nella società civile, spesso ibridata con quella parte della collettività che all’epoca si autodefiniva «maggioranza silenziosa», ossia un corposo gruppo di opinione avverso ai mutamenti in atto, che spingeva per soluzioni regressive.
L’antisindacalismo era uno dei tratti costitutivi di questo aggregato di forze: qualsiasi forma di rappresentanza collettiva degli interessi dei lavoratori era aborrita, rifiutata in quanto lesiva della «libertà economica» e di mercato. Ogni difficoltà che il Paese incontrava veniva quindi ascritta alle rivendicazioni che il movimento dei lavoratori avanzava, sia sul piano economico che, soprattutto, istituzionale, civile e sociale. Se questo era l’inquietante sfondo politico, a ciò si aggiungeva il problema del riassorbimento degli effetti della crisi edilizia avvenuta nel corso degli anni Sessanta. A metà del decennio, infatti, si era interrotto un lungo trend di espansione che, concretamente, durava dal dopoguerra. Già abbiamo avuto modo di soffermarci su questo delicato passaggio ma vale la pena di riprenderlo.
Se nel 1964 il totale degli occupati nell’industria delle costruzioni si aggirava su 2 milioni e 89mila unità (di cui 1.740mila elementi erano registrati come lavoratori dipendenti), due anni dopo i posti di lavoro risultavano essere stati ridimensionati di quasi il 10%, con un calo a 1milione e ottocentomila soggetti.
Il contratto del 1966, alla resa dei conti, pur avendo offerto elementi di avanzamento nel trattamento delle maestranze, tuttavia era risultato insoddisfacente sia rispetto all’evoluzione del quadro economico (dove la caparbia intransigenza dell’Ance aveva impedito un adeguamento salariale all’andamento inflattivo) sia sul piano degli stessi istituti contrattuali. Ad esso aveva inoltre fatto seguito un vero e proprio attacco alla contrattazione articolata a livello aziendale, accompagnato dalla riorganizzazione produttiva dei cantieri. Ne erano derivati, in più casi, l’aumento dei ritmi di lavoro, la saturazione dei tempi, la riduzione o la soppressione delle pause (anche in deroga alle stesse norme contrattuali), l’incremento del logorio psico- fisico dei lavoratori, soprattutto a causa della ossessiva monotonia, della ripetitività e della crescente intensità delle prestazioni. L’organizzazione del lavoro in edilizia risultava essere basata su una sostanziale predeterminazione, per cui il lavoratore era costretto ad un medesimo ritmo, senza variazione alcuna, e al raggiungimento di un obiettivo prefissato di produzione indipendentemente dalle circostanze e dalle condizioni contingenti.
In questa intelaiatura, tanto stretta quanto incapace di valorizzare le competenze di cui molti operai erano pur titolari, se la produttività tendeva a salire le remunerazioni restavano ferme e, più in generale, la qualità delle relazioni industriali, a partire dagli stessi rapporti interpersonali sui luoghi di lavoro, continuavano a essere basate su un autoritarismo gerarchico, accompagnato da un paternalismo gretto e regressivo. Si sommava a ciò, inoltre, la violazione sfacciata delle norme contrattuali, la cui attuazione era quasi sempre affidata nelle mani della sola direzione aziendale.
Un po’ ovunque, se si faceva eccezione per le imprese più grandi, dove le condizioni di lavoro potevano essere meglio tutelate, era la discrezionalità dell’imprenditore a fare la differenza. Così era nell’attribuzione delle qualifiche, nella concreta determinazione dell’orario di lavoro e della sua durata, nell’assegnazione dei superminimi (laddove essi esistevano) e del lavoro a cottimo, nell’applicazione delle norme di sicurezza e di salvaguardia dagli infortuni oltre che sulla non meno spinosa questione dell’igiene sui luoghi di produzione. Il lavoro a cottimo, a tale riguardo, costituiva per il settore una vera e propria spina nel fianco. Malgrado l’impegno per regolamentarlo (e ridurne l’incidenza) a partire dalle lotte del decennio precedente, la sua grande diffusione in edilizia rimaneva un passaggio problematico. Nel settore delle costruzioni il cottimo presentava peraltro caratteristiche distinte da quelle che si misuravano in altri ambiti dell’industria manifatturiera. Ancora nella seconda metà degli anni Sessanta mancavano tariffari e prezzari su cui uniformare la remunerazione delle prestazioni.
Non di meno, il fenomeno del cosiddetto «cottimismo» era fonte di divisione tra i lavoratori, incentivando la concorrenza interna tra gli stessi, fomentando rivalità, divisioni e anche risentimenti contro le organizzazioni sindacali.
L’incapacità del movimento operaio di riuscire a stabilire una piattaforma omogenea, nazionale su questo aspetto, in quanto elemento essenziale del trattamento salariale, frenava l’ulteriore sviluppo rivendicativo. Il controllo sul cottimo rilanciava poi il problema della contrattazione articolata nei luoghi di produzione. Che a sua volta implicava il controllo della gestione della forza lavoro, a partire dal subappalto di manodopera.
In quest’ultimo caso il fenomeno, che costituiva un’aperta violazione della legge 1369 del 1960, la quale sanzionava il divieto di intermediazione e di interposizione nelle prestazioni di lavoro disciplinando l’impiego di manodopera negli appalti di opere e servizi, era invece andato crescendo con la seconda metà del decennio. Se gli imprenditori giustificavano questa dinamica secondo esigenze e logiche di natura tecnica, in quanto risposta alla crisi del settore, per parte sindacale si metteva in luce come ciò costituisse uno strumento – attraverso la creazione di tanti gruppi di dipendenti tra di loro separati per quante erano le lavorazioni, queste ultime affidate ad altrettante sottoimprese – con il quale si frantumava l’unitarietà operativa del cantiere e con essa la capacità rivendicativa dei lavoratori. Dopo di che, con la fine degli anni Sessanta, malgrado la persistenza di carenze strutturali di settore, nonostante l’aggressività padronale e le cicliche e reiterate difficoltà economiche, la ristrutturazione del lavoro edile poteva dirsi per più aspetti ultimata.
Il decennio aveva comportato l’espulsione di una parte della manodopera dal ciclo produttivo. Si era intensificato anche il ricorso ai tradizionali strumenti di sfruttamento, ma molti cantieri erano stati investiti da un processo di elevata meccanizzazione. Con il 1968, quando le lotte studentesche e poi quelle operaie registrarono un crescendo fino ad allora impensabile, l’attività produttiva dell’industria delle costruzioni misurò una nuova fase di espansione.
Il varo di provvedimenti normativi di natura congiunturale, come la legge 1179 che già nel 1965 era stata licenziata con l’obiettivo di introdurre norme di incentivazione dell’attività edilizia, e l’attuazione di misure di natura urbanistica, con la legge 765, costituirono il volano della ripresa. Sotto l’impulso di una pluralità di sollecitazioni legislative, l’industria delle costruzioni sembrò avviarsi verso un nuovo “cammino trionfale”, contrassegnato dall’incremento delle progettazioni (nel biennio 1967-1968 si superò il livello raggiunto nel quadriennio precedente) e da un corposo aumento di nuovi cantieri. Con la ripresa produttiva si realizzò di fatto il consolidamento dei livelli di razionalizzazione delle attività e del ciclo lavorativo avviatisi negli anni precedenti. Sul piano tecnico si incentivò ulteriormente la meccanizzazione delle operazioni di trasporto e della lavorazione del cemento, mentre incrementò il sistema di parcellizzazione delle mansioni. Sul piano sindacale, la ripresa della conflittualità nei cantieri non seguì tuttavia l’evoluzione registrata in altri comparti. Il peso delle ristrutturazioni era stato tale da indebolire la contrattazione. Solo con il rinnovo contrattuale del 1969 si manifestò uno scenario diverso da quello appena trascorso, caratterizzato da una vivacità che segnalava un rinnovato protagonismo dei lavoratori.
Claudio Vercelli