Il varo, da parte del Consiglio dei Ministri, dei decreti attuativi della riforma del lavoro, meglio conosciuta come Jobs Act, sancisce quel processo di mutamento che da molti anni è in atto all'interno del mercato italiano ed europeo.
I vincoli normativi che vengono in tale modo introdotti non fanno altro che recepire – e per più aspetti incentivare – il cambiamento radicale al quale le nostre società sono sottoposte, da diverso tempo, per quello che concerne l'elemento strategico del lavoro, ossia della sua funzione sociale e civile, oltre che economica. Sulla bontà o meno di questa "lenzuolata", l'ennesima, di provvedimenti, ci si potrà esprimere solo nel corso del tempo.
Il varo, da parte del Consiglio dei Ministri, dei decreti attuativi della riforma del lavoro, meglio conosciuta come Jobs Act, sancisce quel processo di mutamento che da molti anni è in atto all’interno del mercato italiano ed europeo.
I vincoli normativi che vengono in tale modo introdotti non fanno altro che recepire – e per più aspetti incentivare – il cambiamento radicale al quale le nostre società sono sottoposte, da diverso tempo, per quello che concerne l’elemento strategico del lavoro, ossia della sua funzione sociale e civile, oltre che economica. Sulla bontà o meno di questa “lenzuolata”, l’ennesima, di provvedimenti, ci si potrà esprimere solo nel corso del tempo.
Il varo, da parte del Consiglio dei Ministri, dei decreti attuativi della riforma del lavoro, meglio conosciuta come Jobs Act, sancisce quel processo di mutamento che da molti anni è in atto all’interno del mercato italiano ed europeo. I vincoli normativi che vengono in tale modo introdotti non fanno altro che recepire – e per più aspetti incentivare – il cambiamento radicale al quale le nostre società sono sottoposte, da diverso tempo, per quello che concerne l’elemento strategico del lavoro, ossia della sua funzione sociale e civile, oltre che economica.
Sulla bontà o meno di questa “lenzuolata”, l’ennesima, di provvedimenti, ci si potrà esprimere solo nel corso del tempo, soprattutto quando se ne verificheranno i concreti ritorni. Rimane il fatto che, al di là delle stanche affermazioni di circostanza, così come di quelle entusiastiche («giornata storica», afferma Matteo Renzi, laddove «una generazione vede finalmente riconosciuto il proprio diritto ad avere tutele maggiori. Parole come ferie, buonuscita, diritti entrano nel vocabolario di una generazione fino ad ora esclusa»), queste ultime oltremodo fuori luogo, sembrano celare la sanzione formale di una spaccatura netta tra una Italia a “tempo indeterminato” e quella restante, destinata a vedersi rispecchiata nella flessibilità permanente che si fa precarietà costante. Nei fatti, prima ancora che nelle intenzioni.
Poiché i fatti ci dicono che il lavoro sta mutando di statuto un po’ ovunque: la sua natura, il suo ruolo sociale, le ricadute sulla comunità, sulle famiglie, sulle società, il rapporto tra la produzione materiale e quella immateriale, il legame tra produrre e consumare, lo stesso agire d’impresa è da più di trent’anni che stanno misurando il segno della discontinuità. Per certuni ciò si traduce da subito in lavoro che manca, come avviene frequentemente nell’edilizia: la filiera è saltata e, con essa, la possibilità di continuare a prestare la propria opera; per altri, invece, il lavoro c’è, anzi a volte aumenta, ma con un secco decremento retributivo: il fenomeno dei working poors, i «lavoratori poveri» (più propriamente, i poveri che lavorano), che pur dedicando molte più ore della media al lavoro non riescono a raggiungere un livello accettabile di retribuzione, essendo quindi doppiamente pressati (per la grande quantità di ore lavorate settimanalmente e per l’esiguità dei compensi), dagli Stati Uniti e dalla periferie dei Paesi a sviluppo avanzato ne ha raggiunto ora il cuore; per una terza categoria di persone, sospese tra la prima e la seconda condizione, il transito dal lavoro regolare, legale, formale, ossia regolamentato, tutelato, regolarmente tassato e socialmente riconosciuto, a una prestazione ibrida, inserita nell’intervallo che si colloca tra il «lavoro grigio» e quello «nero», sta divenendo, se già non lo è da tempo, una strategia obbligata di risposta dinanzi agli sconquassamenti che attraversano l’intero mercato.
A ciò, molto altro si aggiunge. Proviamo a citare solo alcuni fenomeni, in rapida successione: la delocalizzazione permanente delle produzioni, le quali si ricollocano costantemente laddove i fattori produttivi sono meglio remunerati (leggasi, per quello che ci concerne: nei luoghi del pianeta dove il lavoro costa di meno, poiché l’abbattimento delle spese di comunicazione e il contenimento di quelle di trasporto è un fatto oramai consolidato); la trasformazione dei mercati, con la marginalizzazione di alcuni Paesi che pure avevano tenuto dinanzi alla sfida dei cambiamenti fino a non molto tempo, e l’emersione di altri soggetti nazionali, o transnazionali, destinati a dettare in parte gli equilibri di forza in divenire; le trasformazioni delle società, sulle quali il diverso significato del lavoro, e il suo problematico rapporto con il livello dei consumi, mette in discussione equilibri che si ritenevano invece consolidati; la compressione, se non la vera e propria decomposizione. del ceto medio in una parte dei Paesi più ricchi, un fenomeno che in Italia sta raggiungendo una maturazione impressionante; la disparità di trattamento tra lavoratori che, pur eseguendo le medesime mansioni, godono tuttavia di un diverso trattamento contrattuale e salariale, fatto, quest’ultimo, che è particolarmente pronunciato nel divario che intercorre tra generazioni distinte, ossia le più anziane e quelle più giovani; lo scollamento tra lavoro e diritti, laddove sempre più spesso la prestazione si slega da quei diritti di cittadinanza che, nell’impianto stesso della nostra Costituzione sono invece visti come fattore imprescindibile nella costruzione di una società più equa. Tutto ciò, ed altro ancora, pone alle organizzazioni sindacali problemi enormi.
Alla radice dei quali c’è una domanda di fondo imprescindibile, ossia quali debbano essere non solo gli strumenti, i modi, i criteri ma anche le ragioni attraverso le quali si rappresentano gli interessi dei lavoratori, si svolge un’attività sistematica di contrattazione, si dà sostanza al bilateralismo (laddove esso opera) così come si attivano anche i diritti sociali. Questioni, come si potrà osservare, non da poco, sulle quali lo stesso sindacato si gioca il suo tempo a venire: credibilità, funzionalità, esistenza. Con questo articolo, quindi, avviamo una riflessione di lungo periodo, non occasionale, sulla natura del mutamento che sta coinvolgendo il mondo del lavoro e, a latere, quello dell’impresa. Parliamo dell’Italia ma anche dell’Europa, a fronte dei problemi, prima ancora che delle opportunità, innescati dai fenomeni di globalizzazione. Avremo quindi modo di intrecciare scenari continentali con vicende nazionali, dimensioni di scala complesse, stratificate, allargate a contesti più localizzati e “tipici”.
Ci soffermeremo ripetutamente su parole che hanno un grande significato, cercando per l’appunto di spiegarlo in maniera comprensibile, come nel caso di «fordismo», «post-fordismo», «liberismo», «delocalizzazioni» e così via, ma anche su termini che sembrano acquisiti, ovvero compresi una volta per sempre e che invece ci impongo, tanto più oggi, di ragionarci sopra di nuovo. Tra i quali, primo tra tutti, lo stesso «lavoro», nelle sue molteplici metamorfosi, Cercheremo quindi di analizzare cosa stia succedendo tra noi stessi. Soprattutto, cosa stia avvenendo in quella cosa che chiamiamo «mercato» e la cui ragione d’essere riposa nel costituire un ambiente non solo fatto di persone e di merci ma anche di relazioni sottoposti ad una sorta di mutamento persistente.
Claudio Vercelli