Il Jobs Act è il terzo tassello di un variegato complesso di modifiche, di ordine legislativo, inerenti le norme che regolano il mercato del lavoro in Italia. Il primo è costituito dal cosiddetto “pacchetto Treu”, inizialmente pensato nel 1995 ma, discusso e poi approvato, con diversi cambiamenti rispetto al suo impianto originario, solo due anni dopo.
Di fatto, la riforma che porta il nome dell’allora ministro del Lavoro, introduceva il lavoro interinale in Italia, fatto che in molti altri paesi europei era avvenuta quasi trent’anni prima, senza quei presupposti di urgenza che, invece, si erano accompagnati all’epoca.
Il Jobs Act è il terzo tassello di un variegato complesso di modifiche, di ordine legislativo, inerenti le norme che regolano il mercato del lavoro in Italia. Il primo è costituito dal cosiddetto “pacchetto Treu”, inizialmente pensato nel 1995 ma, discusso e poi approvato, con diversi cambiamenti rispetto al suo impianto originario, solo due anni dopo. Di fatto, la riforma che porta il nome dell’allora ministro del Lavoro, introduceva il lavoro interinale in Italia, fatto che in molti altri paesi europei era avvenuta quasi trent’anni prima, senza quei presupposti di urgenza che, invece, si erano accompagnati all’epoca.
La “riforma Biagi”, del 2003, ambiziosamente volta a superare i rigidi criteri regolativi che erano alla base della somministrazione del lavoro in età fordista, è il secondo tassello. Di essa, nei fatti, rimane assai poco, se non l’incentivazione delle flessibilità in ingresso nel mercato del lavoro. Sul resto dell’intelaiatura, oltremodo ambiziosa, che in ipotesi avrebbe dovuto concorrere a cambiare il criterio stesso di concepire il rapporto di lavoro, rimane poco o nulla. Sospesa nel vuoto è anche la legge Fornero che, a conti fatti, ha compresso le scarse forme di flessibilità virtuosa, precedentemente introdotte nel circuito, senza tuttavia offrire alternative sostenibili. Il tutto nell’ipotesi, fuori tempo massimo, di potere ricondurre il lavoro, o per meglio dire i “lavori”, avendo a che fare con una pluralità di situazioni e – quindi – di identità professionali, al modello che era dominante fino agli anni Ottanta, con la prevalenza assoluta dei contratti a tempo indeterminato.
Il Jobs Act arriva dunque dove questa lunga stagione, quasi vent’anni, di tentativi mal impostati e ancor peggio digeriti dalla società così come dalle istituzioni. Doveva costituire il lancio del contratto unico a tempo indeterminato. Le cose, anche in questo caso, stanno tuttavia andando diversamente. Di fatto si assiste ad una robusta liberalizzazione del contratto di lavoro a termine, che già da adesso copre quasi due terzi degli avviamenti al lavoro. Si incentivano di fatto le imprese ad assumere temporaneamente, derogando in tal modo sia dalle premesse, altrimenti dichiarate e sbandierate, di volere sostenere il lavoro qualificato e di adoperarsi per l’intensificazione della lotta al precariato, sia dalla direttiva europea che impone invece vincoli secchi alla ripetizione dei contratti a termine. In tutto ciò, a corredo di misure che pure vogliono ridurre l’impatto della tassazione sul lavoro dipendente a bassa salarizzazione, si evidenzia la completa mancanza di una visione strategica, soprattutto nel merito dei nuovi lavori e delle collaborazioni autonome. La grande parte degli interventi è comunque demandata a una legge delega che dovrà essere prodotta dal Parlamento, con le prevedibili faticosità, e le complesse mediazioni, che tutto ciò già da adesso implica.
Rimangono le enunciazioni di principio, in parte già “rettificate” sotto la pressione dei vari gruppi di interesse. In successione si pongono: il taglio dell’Irap del 10%, finanziato dall’aumento dell’aliquota sulle rendite finanziarie. L’Irap, detto per inciso, vale ben trentatré miliardi all’anno e serve a finanziare la sanità delle Regioni. Segue la riduzione del 10% dei costi dell’energia per le aziende, attraverso compensazioni assolutamente non chiare come, ad esempio, il taglio dei cosiddetti «incentivi cosiddetti interrompibili», laddove però il costo viene scaricato su altre imprese. Si è quindi parlato di un assegno universale per chi perde il lavoro, con obbligo di seguire un corso di formazione e di non rifiutare più di una proposta di lavoro. L’assegno universale, peraltro, esiste già, ed dato dell’Aspi e dalla mini-Aspi, introdotto dalla riforma Fornero nel 2012. La cosa che, plausibilmente, Renzi potrebbe fare è ridurre i requisiti necessari per accedere all’Aspi.
C’è poi l’obbligo di rendicontazione online per ogni voce dei denari utilizzati per la formazione professionale finanziata dal capitale pubblico, trattandosi di un giro di affari di circa seicento milioni l’anno. E ancora, la progressiva scomparsa della posizione ruolo del dirigente a tempo indeterminato nel settore della pubblica amministrazione nonché l’obbligo di trasparenza online sulle entrate e le uscite nei bilanci pubblici. A corredo di queste misure, più di circostanza che non di immediata sostanza, il Jobs Act promette interventi strutturali ad hoc per alcuni settori ritenuti strategici: cultura, turismo, agricoltura, Made in Italy, comparto delle comunicazioni elettroniche e informatiche, Green economy, nuovo Welfare, edilizia e manifattura.
Il Jobs Act farà maturare, per così dire, un singolo piano industriale per ogni comparto. Di ognuno d’essi, peraltro, ad oggi non si è ancora visto nulla. Così come ancora nulla si sa del pavetato Codice del lavoro, che entro il primo autunno dovrebbe invece essere varato. Sulla selva di tipologie contrattuali, almeno quarantadue (delle quali, tuttavia, meno di una decina effettivamente operanti, comprendendo il tempo indeterminato e determinato, i contratti a progetto e coordinati continuativi, il lavoro interinale, il lavoro stagionale, le “false” partite Iva, lo staff leasing), si paventa la loro sostituzione con un «contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti», ipotizzato da Tito Boeri e Pietro Garibaldi. La premessa è che si debba ricorrere ad una secca razionalizzazione dell’esistente, inserendo e sostituendo a ciò che già c’è un’unica forma contrattuale in cui il raggiungimento di tutte le garanzie avvenga nell’arco di tre anni. Vi è poi l’ipotesi della costituzione di una Agenzia unica federale che coordini i centri per l’impiego, la formazione e l’erogazione degli ammortizzatori sociali, in questo caso sostituendosi all’Inps. Infine, c’è l’ipotetica legge sulla rappresentatività sindacale e sui rappresentanti eletti dai lavoratori nei consigli di amministrazione delle grandi aziende. L’impressione è che a fronte di un qualche sforzo di buona volontà, manchino le basi strutturali per procedere ad una radicale riforma dell’esistente. La questione, va da sé, non è esclusivamente politica, rinviando a quella malattia che sembra attraversare il Paese intero, il senso del declino, che si sostituisce a qualsiasi gesto vitale.
Claudio Vercelli