Sul contributo unificato esiste un problema (e forse anche più di uno), sia sul piano pratico che su quello della questione di principio. Il secondo influenza il primo.
Ma, per capire meglio, partiamo da alcune premesse.
Da una parte c’è il Decreto legge n° 98 del 6 luglio 2011, relativo a «Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria», meglio conosciuto come «la manovra», approvato in tempi brevissimi dalle Camere e divenuto immediatamente esecutivo. In esso sono state introdotte sostanziali modifiche rispetto al principio della gratuità nelle cause di lavoro e previdenziali. L’esenzione dall’onere finanziario derivante dal cosiddetto «contributo unificato», una tassa altrimenti imposta a chiunque chieda un giudizio civile nel momento in cui iscrive a ruolo la sua causa, è di fatto venuta meno.
Se fino a prima dell’entrata in vigore del decreto i processi di lavoro erano sempre stati gratuiti per il primo e il secondo grado, adesso il sistema è radicalmente cambiato. L’articolo 37 del decreto legge, infatti, prevede che «nelle controversie individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego, le parti che sono titolari di un reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito risultante dall’ultima dichiarazione.
Sul contributo unificato esiste un problema (e forse anche più di uno), sia sul piano pratico che su quello della questione di principio. Il secondo influenza il primo.
Ma, per capire meglio, partiamo da alcune premesse.
Da una parte c’è il Decreto legge n° 98 del 6 luglio 2011, relativo a «Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria», meglio conosciuto come «la manovra», approvato in tempi brevissimi dalle Camere e divenuto immediatamente esecutivo. In esso sono state introdotte sostanziali modifiche rispetto al principio della gratuità nelle cause di lavoro e previdenziali.
L’esenzione dall’onere finanziario derivante dal cosiddetto «contributo unificato», una tassa altrimenti imposta a chiunque chieda un giudizio civile nel momento in cui iscrive a ruolo la sua causa, è di fatto venuta meno.
Se fino a prima dell’entrata in vigore del decreto i processi di lavoro erano sempre stati gratuiti per il primo e il secondo grado, adesso il sistema è radicalmente cambiato. L’articolo 37 del decreto legge, infatti, prevede che «nelle controversie individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego, le parti che sono titolari di un reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito risultante dall’ultima dichiarazione, superiore al triplo dell’importo previsto dall’art. 76, sono soggette rispettivamente al contributo unificato di iscrizione a ruolo nella misura di cui all’art. 13, comma 1, lettera a), e comma 3, salvo che per i processi dinanzi alla Corte di Cassazione in cui il contributo è dovuto nella misura di cui all’art. 13, comma 1».
In altre parole ciò comporta che il contributo unificato per tutte le controversie di lavoro, nonché quelle di previdenza e assicurazione obbligatoria, ammonti a 18,50 euro per i processi di valore fino a 1.100 euro; a 42,50 euro per le cause da 1.100,01 fino a 5.200 euro; a 103 euro per quelle fino a 26.000 euro; a 225 euro per quelle fino a 52.000 euro così come per quelle dall’importo indeterminabile; di 330 euro per quelle fino a 260.000 euro; di 528 euro per quelle fino a 520.000 euro; di 773 euro per quelle cause che superano la soglia di valore di 520.000,01 euro. È previsto un unico caso di esenzione residuale per i titolari di un reddito inferiore al triplo di quello fissato dal decreto del ministero di Giustizia per l’accesso al patrocinio gratuito, pari ad un lordo di 31.884,48 euro.
In altre parole, al di là del balletto delle tante cifre, cosa vuol dire tutto ciò? Di fatto, al lavoratore che ha visto lesi i suoi diritti, per fare valere le sue ragioni d’ora innanzi si chiederà di pagare l’imposta per attivare la procedura attraverso la quale egli chiede un giudizio civile.
Ma oltre al costo, che pure c’è, è il principio stesso della tutela del più fragile, o comunque del maggiormente svantaggiato, ad essere così messo in discussione.
L’esclusione dal pagamento del contributo unificato non era una graziosa concessione ma rispondeva ad un principio costituzionale per il quale nei rapporti tra lavoratore e suo datore di lavoro è nella totalità dei casi il primo a costituire la parte più debole, soprattutto dal punto di vista economico. La mancata corresponsione di un costo di natura amministrativa e tributaria, qual è il contributo unificato, costituiva quindi un incentivo per quanti volessero chiedere la tutela dei propri diritti violati, ma anche l’elementare riconoscimento del fatto che – tra le due parti in conflitto – quella che va tutelata dal diritto deve essere la più fragile e maggiormente indifesa.
Non fare pagare una tassa, altrimenti richiesta in tutte le cause civili, era la concreta realizzazione di questo principio.
Adesso, il nuovo scenario che la «manovra di stabilizzazione finanziaria» introduce porta ad un cambiamento non da poco, che rivela un’insensibilità sospetta da parte di quelle forze politiche che hanno votato questo provvedimento.
Le parti si equivalgono: lavoratore e datore di lavoro sono posti sullo stesso piano. Una falsa eguaglianza, perché chi deve ricorrere ad un giudice per chiedere che i suoi diritti siano tutelati è sempre in una posizione di inferiorità verso chi non glieli riconosce. Obbligarlo a pagare anticipatamente un’imposizione fiscale è di per sé un’iniquità che si somma a quelle che lo hanno portato a ricorrere in giudizio.
Fin qui la violazione del principio elementare e, quindi fondamentale, richiamato dalla nostra Costituzione.
C’è poi un problema non meno diretto e concreto, e demanda alla specifica situazione del comparto dell’edilizia. Si tratta del ruolo delle Casse Edili, della particolarità delle loro funzioni e del modo in cui funzionano. Poche parole per ricordare che sono Enti paritetici fra le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, istituite dalla contrattazione collettiva, e che erogano specifici benefici e provvidenze legate alle esigenze di chi lavora nel settore edilizio. Tra le diverse funzioni c’è l’azione di riscossione dei crediti in caso di insolvenza dell’impresa. Le Casse Edili, infatti, sono legittimate all’azione giudiziaria per il recupero sia degli accantonamenti che delle contribuzioni contrattuali non versate.
La giurisprudenza fatta propria dal Tribunale di Roma propende per considerare l’Ente come un soggetto di natura e funzioni «previdenziali». Pertanto la Cassa Edile dovrà sempre anticipare o rimborsare gli importi che verranno stabiliti ai legali incaricati di patrocinare il procedimento, salvo poi riscuotere il corrispettivo dalle imprese, fatto questo non certo, trattandosi di soggetti chiamati in causa proprio perché inadempienti. Sembrerebbe una questione di mera contabilità, ed invece è un problema di fondo su chi deve pagare e in base a quale presupposto di principio.
L’onere della contribuzione unica, previsto dal legislatore con il decreto 98/201, andrebbe infatti a sommarsi ad una preesistente situazione, in ragione della quale le Casse Edili già assolvono ad una serie di oneri tributari nel merito delle vertenze giudiziarie di lavoro.
Ancora una volta va ricordato il fatto che le cause di tal genere non hanno in alcun modo la natura di liti di condominio, o richieste di risarcimento danni che possono prospettare in sé un’intenzione di compensazione se non di lucro, ancorché giustificate dalla legge. Quando ci si rivolge ad un tribunale per vedere riconosciuti i propri diritti elementari, lesi dal datore di lavoro, è perché alle spalle ci si trova quasi sempre in una situazione molto difficile. La mancata corresponsione dello stipendio vuol dire per molti lavoratori la più completa mancanza di una fonte di reddito. Chiedere ad essi, e ai loro rappresentati, di farsi carico di costi aggiuntivi, sui quali la pubblica amministrazione si avvantaggia monetariamente, è intollerabile.
Non di meno è intollerabile il silenzio con il quale una parte dello stesso mondo del lavoro e del sindacato sta assistendo allo scardinamento di un diritto elementare: quello di non essere impediti a chiedere giustizia.