Il 2015 si è aperto all’insegna di condizioni e situazioni contrastanti. Un anno sospeso com’è tra il bisogno non più rinviabile di raccogliere un qualche segnale di speranza, che ci dica che l’economia e la società possano finalmente iniziare a risalire la china, e la persistenza di una sorta di stagnazione collettiva, quasi ci fossimo “adeguati” al segno meno che si accompagna ad ogni evento della nostra esistenza.
Non illudiamoci però che il giro di boa tra un anno e l’altro possa costituire l’elemento in grado di cambiare indirizzo ad una tendenza pervicace di declino conclamato.
Il 2015 si è aperto all’insegna di condizioni e situazioni contrastanti. Un anno sospeso com’è tra il bisogno non più rinviabile di raccogliere un qualche segnale di speranza, che ci dica che l’economia e la società possano finalmente iniziare a risalire la china, e la persistenza di una sorta di stagnazione collettiva, quasi ci fossimo “adeguati” al segno meno che si accompagna ad ogni evento della nostra esistenza. Non illudiamoci però che il giro di boa tra un anno e l’altro possa costituire l’elemento in grado di cambiare indirizzo ad una tendenza pervicace di declino conclamato.
Nel processo di spoliazione che una parte importante della nostra società ha subito – impoverimento reddituale, declassamento sociale, marginalizzazione culturale – leggiamo in controluce un indebolimento del Paese nel suo complesso, e non solo da un punto di vista strettamente economico. Ancora una volta l’edilizia, con il suo secco ridimensionamento subito in questi anni, ne è una sorta di palese e ripetuta manifestazione. Rimane il fatto, evidente a chi intenda capire le cose, che la crisi del mercato del lavoro non ha colpito in modo identico tutti i Paesi dell’Unione europea: vorrà pure dire qualcosa. Tanto per fare qualche riferimento, in sei anni, dal 2008 in poi, quasi dieci milioni di persone hanno perso il loro posto di lavoro a tempo indeterminato in tutto il Continente. Il tasso medio di disoccupazione, infatti, è aumentato dal precedente 7% all’attuale 10,8%.
Tasso medio, per l’appunto, poiché se nei Paesi di lingua tedesca questo rimane ancorato intorno al 5%, nel caso spagnolo e in quello greco ha raggiunto la cifra strabiliante del 25%. Tra il 2008 e la prima metà del 2014 la maggior parte dei posti di lavoro sono stati distrutti in Spagna (-3,4 milioni), Italia (-1,2 milioni), e Grecia (-1,0 milioni). Le cifre vanno ovviamente rapportate e ponderate alla popolazione e al tasso medio di occupazione precedente. Nello stesso periodo il numero di posti di lavoro è aumentato di 1,8 milioni in Germania e di 0,9 milioni nel Regno Unito. Da ciò, e dall’ossessiva applicazione di misure di austerità, nel nome delle politiche di bilancio, è aumentata enormemente l’esclusione sociale. Che si amplifica, nel caso dell’Italia, dalla discrepanza tra le qualifiche formali e le competenze maturate dai lavoratori e le effettive richieste del mercato del lavoro.
Potremmo evocare tanti altri dati, ma il concetto ci sembra chiaro: quella condizione che sembra essere divenuto l’unico orizzonte della nostra esistenza, la cosiddetta “crisi”, non è segnata da una diffusa e generalizzata contrazione delle risorse e delle opportunità per tutti ma da una loro redistribuzione polarizzata tra i diversi Paesi dell’Unione europea. In altre parole, più che costituire un fenomeno unitario, caratterizzato da una decrescita collettiva, sta invece ridisegnando le fisionomie dei soggetti collettivi, favorendone alcuni e penalizzandone altri. Che l’Italia sia tra i secondi è alla radice stessa della sua condizione di crescente subalternità. La quale deriva da un insieme di fattori, che misuriamo direttamente nel settore edile. Il primo è il processo di deindustrializzazione che ha colpito il Paese nelle sue stesse fondamenta, storicamente databile nei suoi primordi dagli anni Ottanta.
Ci siamo illusi, raccontandoci più di una favola, che alla trasmigrazione delle imprese verso l’estero, o alla loro progressiva consunzione, potessimo dare come risposta esaustiva il ricorso a una non meglio precisata economia dell’informazione, e dei servizi avanzati, laddove l’una e gli altri occupano invece solo una piccola fetta di lavoratori, con un tasso di ricambio peraltro bassissimo. Non di meno, se guardiamo in volto la Germania, scopriamo che l’industria, in tutte le sue ramificazioni, sia pure con significativi cambiamenti e assestamenti, continua ad essere la spina dorsale della produzione nazionale come dell’economia. Il secondo riscontro è legato al tasso di burocratizzazione amministrativa e di centralizzazione dei processi decisionali che verifichiamo in Italia, il quale non ha pari in molti altri Paesi, europei e non. Unito ad una tassazione diseguale, che punisce gli onesti e premia gli evasori, cementifica (è il caso di dirlo!) e solidifica in un combinato disposto a tenaglia gli interessi dei gruppi corporativi di pressione, disilludendo chiunque altro dall’effettuare qualsiasi investimento.
Il blocco contro il quale andiamo a scontraci è quello di una platea di soggetti (amministratori e politici, alcune imprese, soggetti economici dediti perlopiù ad attività speculative, più in generale un’area del parassitismo strutturale, che spesso si alimenta dei trasferimenti dalle casse pubbliche) che hanno solo da guadagnarci dal perdurare di una situazione quale quella che stiamo vivendo. In parole semplici: non è crisi per tutti. Fatto che ci induce a ritenere che alle disgrazie degli uni, i più, si accompagnino le fortune di altri. Un terzo passaggio, ma se ne potrebbero citare molti altri, è il clamoroso disinvestimento dai processi formativi e, più in generale, dall’istruzione. Se da un lato si è misurata un’espansione quasi incontrollata delle qualificazioni alte per alcuni segmenti della società, con il protrarsi oltre misura degli studi, perlopiù nel tentativo di rinviare un improbabile ingresso in un mercato del lavoro saturo, per molti altri, la maggior parte dei nostri connazionali, si sono invece contratte le occasioni per una buona formazione di base, quella che occorre per affrontare il cambiamento.
È parte del processo di destrutturazione del mercato del lavoro, infatti, l’inflazionarlo di titoli, dilatando i tempi della fuoriuscita dal circuito scolastico di alcune componenti della popolazione, mentre non ci si adopera più per alcun aggiornamento professionale e per reinserire quanti, in realtà moltissimi, sono privi di strumenti essenziali per affrontare la quotidianità. Un processo di semianalfabetismo funzionale e civile di ritorno, aggravato dalla complessità dell’evoluzione tecnologica e dei rapporti nel mondo lavorativo. Si tratta, in tutti questi casi, di un quadro che ci riconsegna una situazione di crisi sistemica e sistematica, nella quale ci troviamo coinvolti. Il problema sul quale dobbiamo soffermarci è, a questo punto, da che cosa il sindacato possa e debba ripartire per dare una risposta che sia all’altezza della crisi. Da soli non ci bastiamo, e lo sappiamo bene; ma senza di noi, gli altri – a partire dai lavoratori stessi – non potranno bastarsi.
Anna Pallotta