Il mare se li è presi e ce li sta restituendo solo in parte, avaro come sa essere di quei corpi che trascina dentro di sé, nel suo infinito ventre. La catastrofe del naufragio collettivo nelle acque prospicienti Lampedusa è solo l'ultima di una lunga serie di vicende luttuose, tutte legate a quella immigrazione che le leggi italiane fanno da subito - quando donne e uomini cercano disperatamente di varcare i nostri confini - non solo «clandestina» ma anche «illegale». Di alcune delle tragedie legate a questo fenomeno, che noi stessi - Paesi a sviluppo avanzato - abbiamo concretamente contribuito a creare, neanche ne abbiamo avuto notizia.
Il mare se li è presi e ce li sta restituendo solo in parte, avaro come sa essere di quei corpi che trascina dentro di sé, nel suo infinito ventre. La catastrofe del naufragio collettivo nelle acque prospicienti Lampedusa è solo l’ultima di una lunga serie di vicende luttuose, tutte legate a quella immigrazione che le leggi italiane fanno da subito – quando donne e uomini cercano disperatamente di varcare i nostri confini – non solo «clandestina» ma anche «illegale». Di alcune delle tragedie legate a questo fenomeno, che noi stessi – Paesi a sviluppo avanzato – abbiamo concretamente contribuito a creare, neanche ne abbiamo avuto notizia.
Il mare se li è presi e ce li sta restituendo solo in parte, avaro come sa essere di quei corpi che trascina dentro di sé, nel suo infinito ventre. La catastrofe del naufragio collettivo nelle acque prospicienti Lampedusa è solo l’ultima di una lunga serie di vicende luttuose, tutte legate a quella immigrazione che le leggi italiane fanno da subito – quando donne e uomini cercano disperatamente di varcare i nostri confini – non solo «clandestina» ma anche «illegale». Di alcune delle tragedie legate a questo fenomeno, che noi stessi – Paesi a sviluppo avanzato – abbiamo concretamente contribuito a creare, neanche ne abbiamo avuto notizia. Le vittime sono semplicemente scomparse nelle acque del Mediterraneo, magari a pochi metri dalle rive o a distanza di tanti chilometri.
Si stimano in almeno ventimila i morti affogati dal 1988. Detto questo, i pianti di rito, quelli che durano lo spazio di un momento, sono ipocriti e non meno irritanti degli esercizi di razzismo che costellano queste giornate così tristi. Mentre i primi recitano un imperativo privo di credibilità, un «mai più!» vuoto e inconsistente perché irrealizzabile, i secondi si compiacciono nel dire «per sempre!», immaginando che quegli esseri umani siano assimilabili a fastidiosi parassiti, da eliminare per mantenere incontaminate le acque e le terre di chi avrebbe invece il diritto assoluto ad una sorta di supremazia esistenziale sul resto dell’umanità.
La vita come nuda proprietà, in altre parole; quindi, a certuni concessa, (in particolare a quelli che hanno i soldi per farla fruttare), e agli altri, invece, negata o condizionata secondo l’arbitrio del caso. Ora, oltre lo spazio dei sentimenti caramellosi o dei risentimenti rancidi, quel che resta è la consapevolezza che il problema è politico, ossia rimanda alle scelte che si intendono fare non per fermare chi arriva ma per definire realisticamente e concretamente come debba entrare e poi restare nel nostro spazio. Che non è solo quello italiano, e men che meno quello di un «Occidente» fantasticato come cittadella assediata, bensì di un’Europa che dice a piè sospinto di essere unita e che invece, sulla partita dell’immigrazione, si gioca ben più di una delle sue residue carte. A meno che non scelga, in questo come in altri casi, di costituire un’«espressione geografica» con un solo centro, la Germania, indifferente al destino di tutto il resto del Continente.
L’Italia, per parte sua, deve procedere, e in tempi rapidi, ad una radicale revisione della legislazione in materia. L’introduzione nel 2009 del reato di «clandestinità», che condanna a priori qualsiasi esodo senza temperarlo con misure che non siano il semplice rigetto, è non solo un obbrobrio giuridico e un’oscenità morale, ma una manifestazione di puro irrealismo. Al punto che il soccorso diventa esso stesso un atto illegale. Lo Stato moderno non esiste per fare la carità, bensì per garantire efficienti circuiti di integrazione sociale. Molti di quanti in queste settimane si sono avvicinati alle nostre coste fuggono da Paesi le cui guerre hanno a che fare con tante delle nostre scelte. Oppure delle nostre “non scelte”, il che, nella politica internazionale, è spesso la medesima cosa.
Si tratta allora di fare proprio un atto di responsabilità, prima di tutto verso se stessi e, in immediato riflesso, verso coloro che sono il nostro stesso specchio, nel quale si riflette il nostro volto, quanto meno di come fummo in tempi non lontani. Anche qui, o la buona politica torna in campo o rischieremo noi stessi, prima o poi, di affogare.
C. V.