Il contratto degli edili del 1966 registrò i punti di forza, ma anche i limiti della contrattazione sindacale, in un sistema che necessitava sempre di più del bilateralismo e che, invece, trovava nella controparte datoriale quasi sempre un muro di pervicace indisponibilità. La questione, tanto più con gli anni ’60, aveva a che fare con i problemi economici solo in piccola parte, essendo semmai di ordine politico. Le disponibilità finanziarie dei datori di lavoro, a partire dalle grandi imprese, erano infatti cospicue. Il mercato immobiliare aveva trainato, insieme ad altri comparti, la crescita del Paese.
Innumerevoli erano stati i fenomeni di speculazione, che avevano concorso a creare fortune, a volte, gigantesche.
Il contratto degli edili del 1966 registrò i punti di forza, ma anche i limiti della contrattazione sindacale, in un sistema che necessitava sempre di più del bilateralismo e che, invece, trovava nella controparte datoriale quasi sempre un muro di pervicace indisponibilità. La questione, tanto più con gli anni ’60, aveva a che fare con i problemi economici solo in piccola parte, essendo semmai di ordine politico. Le disponibilità finanziarie dei datori di lavoro, a partire dalle grandi imprese, erano infatti cospicue. Il mercato immobiliare aveva trainato, insieme ad altri comparti, la crescita del Paese.
Innumerevoli erano stati i fenomeni di speculazione, che avevano concorso a creare fortune, a volte, gigantesche. I «padroni» si erano ingrassati e arricchiti, ed il piangere miseria per parte di molti di loro risultava assai poco credibile. Piuttosto, ed era questo il vero punto critico, l’edilizia, in quanto settore strategico dell’economia italiana, consapevole del potere che riusciva ad esercitare, tirava da tempo il carro della conservazione, essendosi politicamente arroccata sul versante del rifiuto di ogni forma di innovazione quand’essa non comportasse un proprio immediato tornaconto.
Una parte dell’imprenditoria edile aveva vestito i panni che un tempo erano stati indossati dai grandi proprietari terrieri, i latifondisti, nel dire di no a qualsiasi mutamento negli equilibri politici dell’Italia. L’esperienza, ormai declinante, del centro-sinistra era stata vissuta come fumo negli occhi e la voglia di rivalsa si esprimeva nella durezza con la quale i lavoratori erano spesso trattati.
Andava quindi in tal senso la campagna promossa contro i premi di produzione, soprattutto per i cementieri, ovvero per come essi erano derivati dopo le dure lotte compiute nel 1964. In sede di contrattazione il padronato aveva proposto un aumento del 4% dei minimi tabellari, un’ora di riduzione dell’orario di lavoro scaglionata sul tempo di validità del contratto, un nuovo scatto biennale di anzianità, un piccolo ritocco al premio annuale pre-feriale, fino ad allora fissato nella misura di ventimila lire annue. L’accettazione di queste condizioni, assai poco remunerative per i lavoratori, secondo la controparte avrebbe permesso l’apertura di una trattativa sui premi di produzione nel settore del cemento. A conti fatti il sindacato avrebbe dovuto permettere un loro congelamento fino al 1968, per poi eventualmente passare dagli esistenti premi mobili, legati all’andamento produttivo, ai premi in misura percentuale fissa. La partita aperta dai costruttori aveva quale reale obiettivo lo scardinamento della forza e della compattezza delle rivendicazioni operaie, così come degli effetti dell’onda lunga delle lotte che negli ultimi anni si erano prodotte in tutta la società. La consapevolezza che le une e le altre costituissero una manifestazione non solo di ordine economico, ma anche l’indispensabile puntello della richiesta di una maggiore democrazia sociale, faceva sì che il padronato intendesse rispondervi con nettezza e determinazione, cercando gli elementi critici per fare deragliare l’architettura dell’azione contrattuale.
Per il sindacato il quadro, nella sua problematicità, era comunque sufficientemente chiaro. Accettare le proposte che gli erano state avanzante avrebbe comportato non uno, ma due passi indietro. Infatti, se da un lato sarebbero stati messi di nuovo in discussione istituti oramai consolidati dalla normativa vigente, magari con il pretesto di adattarli alla situazione del momento, dall’altro appariva chiaro che l’unica, reale motivazione fosse dettata dal revanscismo della controparte.
Nella seconda metà del decennio lo stato di sviluppo raggiunto dall’edilizia italiana, in tutte le sue componenti, era peraltro ragguardevole. L’Italia vantava gli effetti di una crescita senza pari, collocandosi al quinto posto, su scala mondiale, nell’evoluzione quantitativa del comparto e al secondo, sul versante europeo, per ciò che concerneva la produzione di cemento.
Tale condizione di eccellenza, manifestatasi già con gli anni del boom economico, si era consolidata poi successivamente. Parlare di un settore in difficoltà, come certuni invece andavano all’epoca facendo, voleva dire non conoscerne l’autentica fisionomia oppure, molto più prosaicamente, cercare di ricattare gli interlocutori presentando problemi che non esistevano.
Semmai, le ricchezze e i profitti ottenuti dal dopoguerra in poi erano stati incamerati da pochi, rivelando una diseguaglianza nella ripartizione delle opportunità e dei risultati che era, a conti fatti, ancora più secca ed evidente che in altri settori produttivi: lauti ricavi per gli imprenditori a fronte di un livello salariale più che insoddisfacente per buona parte dei quasi due milioni di lavoratori edili.
Gli scompensi registrati tra il 1962 e il 1965, quando si erano evidenziate alcune battute d’arresto nel settore, con il tornante di metà decennio erano stati finalmente superati. L’edilizia aveva risposto con una riorganizzazione della filiera organizzativa e tecnologica, così come in parte – purtroppo – con l’espulsione della forza lavoro meno qualificata. Dopo di che, con il 1966 il livello della produzione era tornato, superandolo poi, agli indici degli anni migliori. Nei soli primi quattro mesi del 1966, per l’appunto, la produzione di 6.520.800 tonnellate di cemento aveva sancito la ripresa in grande stile delle attività, segnando un incremento del 7% rispetto all’anno precedente. Tradotto in soldoni, si trattava di moneta contante per gli imprenditori. E di tanta moneta. Un esempio, tra i diversi possibili, era quello della «Italcementi», azienda leader nel settore, che chiudeva il bilancio del 1965 con un utile netto di più di due miliardi e mezzo di lire, al valore della moneta di allora. Se investitori, proprietari ed azionisti celebravano i loro successi, la stessa cosa non poteva essere detta dei dipendenti.
La stessa impresa, infatti, aveva risposto alla crisi degli anni precedenti provvedendo ad un ridimensionamento delle sue attività produttive, ossia una «razionalizzazione » che aveva comportato la chiusura di alcuni stabilimenti minori con l’inevitabile ricaduta in negativo sull’occupazione. Laddove si confermava l’assunto che i costi delle ristrutturazioni industriali e i riassetti interni alle imprese dovevano essere scaricati sul soggetto più debole nella triangolazione impresa-finanziatori-lavoratori.
Se le aziende private in genere potevano quindi dirsi soddisfatte del “bottino” di profitti portato a casa, una cosa molto simile accadeva anche per le imprese del settore pubblico, dove la produttività era stata crescente, mantenendo un trend positivo tra costi e ricavi, i primi compressi e i secondi lievitati grazie alla ricchezza prodotta dai dipendenti per ogni ora o unità lavorata. Così, Stato e imprenditori intascavano i benefici della situazione di forte sfruttamento delle forze produttive.
Anche qui un esempio può risultare utile: negli stabilimenti, collocati a Napoli, Arquata Scriva, Taranto e Livorno della «Cementir », a partecipazione statale, la produzione, nel 1965 era aumentata in media del 5%, mentre le vendite erano salite del 5,3%. La domanda era stata così forte da imporre di farvi fronte con il ricorso alle scorte. Nei primi quattro mesi dell’anno successivo, la medesima impresa misurava un incremento dell’11% delle vendite e di ben il 16% nella produzione. Un saldo più che profittevole, in buona sostanza, ottenuto anche con l’espulsione di manodopera ritenuta eccedente. I soldi per affrontare le richieste dei lavoratori del comparto del cemento c’erano quindi tutti, la volontà politica invece no. E non era un caso.
Claudio Vercelli