Secondo i calcoli fatti all'epoca, tra il 1962 e il 1963 i costruttori italiani avevano guadagnato, al netto dei costi e dei diversi oneri, non meno di 600 miliardi di lire. In altre parole, quella cifra gli era direttamente entrata in tasche già di per sé abbondanti ed ora ulteriormente rimpinguate.
L'aspetto più eclatante di questa situazione era che la lievitazione dei profitti nel settore si era verificata senza sostanziali incrementi dell'occupazione.
Anzi, gli elementi tendenziali indicavano percorsi di segno semmai opposto.
Al bisogno di una manodopera più qualificata e competente aveva invece fatto riscontro il permanere di una diffusa dequalificazione così come l'esodo degli operai specializzati verso altri settori industriali, maggiormente remunerativi.
Secondo i calcoli fatti all’epoca, tra il 1962 e il 1963 i costruttori italiani avevano guadagnato, al netto dei costi e dei diversi oneri, non meno di 600 miliardi di lire. In altre parole, quella cifra gli era direttamente entrata in tasche già di per sé abbondanti ed ora ulteriormente rimpinguate.
L’aspetto più eclatante di questa situazione era che la lievitazione dei profitti nel settore si era verificata senza sostanziali incrementi dell’occupazione.
Anzi, gli elementi tendenziali indicavano percorsi di segno semmai opposto.
Al bisogno di una manodopera più qualificata e competente aveva invece fatto riscontro il permanere di una diffusa dequalificazione così come l’esodo degli operai specializzati verso altri settori industriali, maggiormente remunerativi.
Secondo i calcoli fatti all’epoca, tra il 1962 e il 1963 i costruttori italiani avevano guadagnato, al netto dei costi e dei diversi oneri, non meno di 600 miliardi di lire. In altre parole, quella cifra gli era direttamente entrata in tasche già di per sé abbondanti ed ora ulteriormente rimpinguate.
L’aspetto più eclatante di questa situazione era che la lievitazione dei profitti nel settore si era verificata senza sostanziali incrementi dell’occupazione.
Anzi, gli elementi tendenziali indicavano percorsi di segno semmai opposto.
Al bisogno di una manodopera più qualificata e competente aveva invece fatto riscontro il permanere di una diffusa dequalificazione così come l’esodo degli operai specializzati verso altri settori industriali, maggiormente remunerativi.
Non di meno, malgrado le promesse e le solenni dichiarazioni, nei cantieri la situazione della sicurezza continuava a costituire un vero e proprio buco nero. L’antifortunistica latitava, soprattutto dinanzi ad un padronato che, paternalisticamente, lasciava intendere che i “propri” dipendenti non necessitassero di troppe tutele.
Né che le richiedessero. Quando qualcuno, a partire dallo stesso sindacato, sollevava obiezioni in merito veniva liquidato con sufficienza. Peraltro la magistratura di quegli anni, a partire da quella del lavoro, era ancora per buona parte espressione di un ceto separato, una élite a sé, che si era formato perlopiù durante il fascismo, ben poco proclive a tutelare un’ampia fascia di lavoratori considerati figli di un dio minore.
Perduravano poi altre incongruenze: se le costruzioni residenziali stavano conoscendo un vero e proprio boom (per la felicità dei costruttori medesimi, per lo più visti come “palazzinari”, spregiudicati operatori del settore, proclivi al solo guadagno e a null’altro), l’edilizia popolare e a fini sociali era in posizione di forte dipendenza. In altre parole, si costruivano abitazioni soprattutto per quella parte del ceto medio e medio-alto che si stava avvantaggiando della crescita economica, lasciando la parte più povera della popolazione in quella condizione di forte disagio abitativo (oltre che di modestia economica) nella quale si trovava da tempi immemori.
Lo sviluppo delle lotte sindacali nell’industria metalmeccanica, in quella chimica e nella siderurgia costituiva però sempre di più un modello al quale gli stessi edili erano chiamati a guardare con interesse. Più in generale, il sindacato medesimo andava chiedendo per sé un ruolo e degli spazi non di sola contrattazione economica, ossia l’attivazione di quelle funzioni che fino ad allora non gli erano state pienamente riconosciute. Le organizzazioni dei lavoratori avevano maturato la consapevolezza della loro funzione strategica rispetto ai nuovi equilibri che si erano imposti nella società italiana.
Garanti non solo di protezione per i loro associati ma anche e soprattutto di diffusione del benessere materiale e dei diritti sociali per tutti i lavoratori. Anche per la Feneal, come per la Fillea e la Filca, si poneva quindi un problema di prospettiva di natura politica.
Laddove ciò implicava non certo il sostituirsi ai partiti quanto il farsi protagonisti di una progettualità che partisse dal lavoro e che, in accordo con lo stesso spirito della Costituzione repubblicana, rendesse i lavoratori protagonisti dello sviluppo in corso nel Paese.
In questo quadro generale, di forte accelerazione delle dinamiche rivendicative alle richieste contrattuali del 1963, dove le organizzazioni sindacali avevano domandato una revisione globale di tutta una serie di istituti, la risposta dei costruttori, raccoltisi intorno all’Ance, fu secca e inequivocabile: siamo disposti a concedere un incremento salariale del 5% e nient’altro. La reazione non si fece quindi attendere, traducendosi in una serie di scioperi ai quali il padronato rispose a sua volta minacciando la serrata delle imprese.
L’evoluzione dei fatti fu tumultuosa, come ci si poteva immaginare in un quadro di per sé già incandescente, al quale si accompagnarono una serie di intensi scontri di piazza. Quando nel novembre del 1963, dopo cinque mesi di agitazioni, si pervenne alla firma del contratto, i risultati risultarono ben più premianti di quelle che erano state le premesse.
Gli aumenti salariali si aggiravano intorno al 10%, la riduzione complessiva dell’orario di lavoro raggiungeva le tre ore settimanali, si procedeva ad un’ulteriore integrazione all’80% delle ore perse per il maltempo (di contro al precedente 66%), si aumentavano i premi di produzione su base provinciale, si introduceva una nuova indennità di anzianità pari a 7 ore mensili, insieme a un inedito sistema di raccolta delle quote sindacali per il tramite delle Casse edili. Mancava il raggiungimento della meta più importante, quella di un salario annuo garantito.
Tuttavia per la Feneal di Luciano Rufino il nuovo contratto era un traguardo rilevante poiché si muoveva verso l’obiettivo di stabilizzare – sul modello delle relazioni industriali mantenute negli altri settori produttivi – i rapporti contrattuali con la controparte padronale, incrementando il ruolo del sindacato e, soprattutto, regolarizzando la condizione di molti lavoratori fino ad allora sospesi tra occasionalità e marginalità.
Era fondamentale che l’edilizia non fosse più vista dalla manodopera come un luogo di transito, inesorabilmente destinato a costituire l’anello debole di una economia industriale che, invece, nel giro di dieci anni era andata radicalmente mutando. Perché ciò avvenisse, ovvero affinché chi lavorava nel settore non fosse considerato (e non si reputasse) una figura per sempre precaria, occorreva che l’intero sistema di contrattazione mutasse alla sua radice.
Peraltro, l’ipotesi stessa che si potesse finalmente mettere mano alla questione dell’edilizia popolare richiedeva, per parte sua, che le maestranze edili fossero ritenute dei soggetti capaci di influenzare le scelte di fondo del proprio ambiente. Sotto questi auspici – ma anche con qualche timore – si approssimava intanto il quarto congresso nazionale della Uil, che si sarebbe tenuto a Montecatini tra il febbraio e marzo del 1964.
La Feneal, già un mese prima, aveva celebrato il suo quarto congresso, a Napoli, basando l’intera discussione sul binomio “riforme e programmazione”: riforme sociali e programmazione economica. I tempi erano peraltro maturi poiché si era negli anni dei tentativi riformistici portati avanti dai governi di centro-sinistra.
Quante fossero le opposizioni, manifeste e celate, ai tentativi di mutare gli equilibri in senso progressivo del nostro Paese, lo si sapeva in parte già allora e ancora di più lo si sarebbe capito ad esperienza conclusa, quando, tra le altre cose, sarebbero emersi anche i tentativi di colpo di stato ipotizzati da quei poteri che nulla volevano che cambiasse del quadro esistente.
Il congresso degli edili presentava peraltro un bilancio positivo per l’intera organizzazione sindacale: il suo finanziamento attraverso le trattenute dei contributi sulle buste paga; il superamento del sistema degli orari di lavoro settimanali fissati per legge; il riconoscimento della contrattazione aziendale anche per i cementieri e nelle fornaci dei laterizi; l’incremento del ruolo dei sindacati nelle vertenze provinciali, uno dei fulcri della contrattazione edile.
Da questa cornice positiva si poteva ora ipotizzare un salto di qualità, verso quel salario annuo garantito che in edilizia continuava a latitare. Non si trattava di un obiettivo meramente economico.
Piuttosto avrebbe costituito il volano per fare in modo che il sindacato superasse la fisionomia di semplice agente contrattuale e salariale, per rivestire quei panni di soggetto del cambiamento ai quali legittimamente poteva aspirare.
Un punto fondamentale di questa coscienza, che si tramutava in rivendicazione aperta per sé e i propri rappresentati, era l’insistenza con la quale la Feneal ribadiva la stretta relazione tra il processo di industrializzazione delle attività edilizie (sempre più legate al ricorso ai macchinari, al lavoro specializzato come ad investimenti di grandi proporzioni) e le nuove forme del contratto di lavoro, concepito ora come strumento di adeguamento alla più generale trasformazione delle identità lavorative e imprenditoriali.
Il nesso che si voleva valorizzare era quello intercorrente tra sviluppo urbanistico, mutamento sociale e condizione dei lavoratori.
Ancora una volta per la Feneal era imprescindibile che l’edilizia non fosse più considerata un mero serbatoio di risorse umane, dal quale attingere indistintamente.
Durante il congresso napoletano il segretario generale della Uil, Italo Viglianesi, ebbe modo di ribadire queste attese rivolgendosi soprattutto al governo presieduto da Aldo Moro (che vedeva nella sua maggioranza la presenza anche del partito socialista e di quello socialdemocratico), verso il quale indirizzò una serie di richieste: la programmazione di nuove linee di sviluppo economico per ridurre i drastici divari tra il meridione e il settentrione del Paese; l’intervento pubblico, sia economico che legislativo, in settori strategici quali quelli della scuola, della casa, della sicurezza sociale; la difesa e l’incremento del potere d’acquisto degli stipendi e dei salari. Dietro le aspettative che gli edili, e con loro tutto il mondo del lavoro, andavano esprimendo, si delineava una spaccatura sempre più netta tra due diverse concezioni dell’Italia.
Da una parte la radice riformista veniva radicandosi e ramificandosi; sul versante opposto permaneva però, e non certo come mero residuo del passato, un forte conglomerato di poteri i cui interessi erano radicalmente contrapposti rispetto a qualsiasi cambiamento. «Stimolare e favorire una politica di centro-sinistra che per il suo contenuto sia in grado di rompere gli antichi equilibri sui quali si sono fondati, dall’unificazione d’Italia ad oggi, gli interessi di gruppi di potere, e che abbia la capacità e la volontà di aggredire i tradizionali e nuovi scompensi economicosociali e strutturali» era invece il pensiero di Luciano Rufino.
La programmazione economica assumeva così la natura non solo di intervento diretto dello Stato nel tumultuoso sviluppo di quegli anni ma anche e soprattutto di indirizzo verso un nuovo modo di fare società, ovvero di essere italiani, dove l’obiettivo dell’eguaglianza sociale non fosse più un sogno o, peggio ancora, una chimera.
Per la Feneal ciò si traduceva, tra le altre cose, nel rafforzamento della contrattazione articolata (il diritto del sindacato a stipulare accordi integrativi rispetto al contratto di categoria e a trattare in seconda istanza le vertenze non risolte a livello aziendale). Si traduceva inoltre nella ricerca di formule adatte a far acquisire ai lavoratori premi di produzione effettivamente rispondenti agli incrementi di produttività.
Se questo era il quadro dei contenuti, non di meno il sindacato edile registrava un incremento organizzativo notevole: alla data del congresso del 1964 gli iscritti erano oramai trentacinquemila, mentre si poneva come fondamentale l’obiettivo di una crescita culturale dei quadri interni, nel contesto di quello che allora fu definito come l’obiettivo delle «tre unità»: quella sindacale, con le organizzazioni delle altre confederazioni; quella territoriale, per unificare i diversi livelli retributivi e previdenziali ancora presenti nel Paese; e infine quella europea, proiettando l’intero lavoro sindacale sullo sfondo di un Continente in via di unificazione.
Claudio Vercelli