Il terzo congresso della Feneal, tenutosi a Caserta nel febbraio del 1958, dovette confrontarsi con una quadro politico internazionale che stava subendo dei profondi cambiamenti. La divisione del continente europeo in due blocchi politici, ideologici ed economici, tra di loro nettamente contrapposti, pesava enormemente sulle scelte dei singoli soggetti, a partire da quelli sindacali.
Sussisteva una sorta di ipoteca comunista, che vincolava l’evoluzione dei rapporti a livello internazionale e nazionale in tutti gli ambiti delle società, a partire dai rapporti nel mondo del lavoro.
Il terzo congresso della Feneal, tenutosi a Caserta nel febbraio del 1958, dovette confrontarsi con una quadro politico internazionale che stava subendo dei profondi cambiamenti. La divisione del continente europeo in due blocchi politici, ideologici ed economici, tra di loro nettamente contrapposti, pesava enormemente sulle scelte dei singoli soggetti, a partire da quelli sindacali.
Sussisteva una sorta di ipoteca comunista, che vincolava l’evoluzione dei rapporti a livello internazionale e nazionale in tutti gli ambiti delle società, a partire dai rapporti nel mondo del lavoro.
Chi si riconosceva nelle ragioni dell’Unione Sovietica e del blocco delle cosiddette «democrazie popolari», l’insieme dei paesi caduti sotto il dominio di Mosca dal 1945, riteneva che qualsiasi riforma fosse solo un espediente transitorio verso quello che doveva costituire il vero obiettivo delle lotte sociali: la rivoluzione, violenta o meno che dovesse essere al momento della sua effettiva realizzazione. Molti lavoratori, pur non condividendo quei progetti politici che, se tradotti in fatti concreti, avrebbero implicato l’istituzione di regimi autoritari, come era quello sovietico, risultavano comunque attratti dal modello culturale che questo “esportava”, spacciandosi per il Paese in cui i diritti di chi viveva delle sue fatiche erano riconosciuti pienamente.
Si trattava di un inganno? Senz’altro, se giudichiamo con il metro della Storia. Non di meno, all’epoca la seduzione che il comunismo esercitava su ampi strati della popolazione, che vedeva in esso la vera luce della speranza in un futuro migliore, era incontrovertibile. Tutto ciò si rifletteva pesantemente su quanti, sindacati tra i primi, dovevano concretamente adoperarsi per risolvere i conflitti con il padronato, tutelando gli interessi dei lavoratori e rappresentandone, a tutti i livelli, le istanze non solo economiche ma anche sociali se non, a volte, politiche.
Le forze riformiste, benché animate da spirito di impegno e di perseveranza dovevano confrontarsi in Italia non solo con i loro abituali avversari di classe, i datori di lavoro, ma anche con la concorrenza ideologica dei comunisti, che cercavano di sottrarre loro spazi d’azione e di legittimazione.
Tuttavia la fine degli anni Cinquanta furono segnati anche da ulteriori trasformazioni, che riguardavano soprattutto i paesi dell’Europa occidentale. Con la firma dei trattati di Messina del 1957, infatti, si diede corpo e seguito a quell’embrione di Comunità europea che era andato costituendosi, sia pure timidamente, negli anni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale.
L’ispirazione di fondo era quella per cui dopo le carneficine e gli stermini che si erano consumati tra il 1939 e il 1945 necessitasse fare sì che le controversie tra gli Stati sovrani presenti sul continente si risolvessero sempre e comunque ricorrendo alla politica e alla mediazione consensuale.
Ciò implicava creare organismi comuni, in grado di cooperare tra di loro, anche a costo di vincolare la libertà di azione degli Stati medesimi, quanto meno su certe materie di interesse generale, ovvero europeo.
Non è quindi un caso che al terzo congresso della Feneal emergessero come temi di maggiore rilevanza quelli che demandavano ai grandi problemi strategici ed economici che accompagnavano il Mec, il mercato comune europeo, costituito dai paesi che erano i “soci fondatori” della nuova Europa, ovvero l’Italia, la Germania occidentale, il Belgio, la Francia, il Lussemburgo e l’Olanda.
Il dibattito congressuale, condotto dall’allora segretario Feneal, Giordano Gattamorta, che dal congresso sarebbe uscito riconfermato nella sua carica, si soffermò ripetutamente sulla dimensione europea che i problemi legati al mondo del lavoro avevano assunto non meno che sulla necessità di dare risposte di ampio respiro alle sfide dei tempi correnti.
Tra un intervento e l’altro prese così corpo, nel corso del congresso, quella che sarebbe divenuta la piattaforma rivendicativa sulla quale la Feneal si sarebbe assestata negli anni successivi: la lotta, ad ogni livello e con tutti gli strumenti a disposizione, per dare un forte impulso allo sviluppo dell’edilizia popolare. Si trattava, a ben guardare, di un triplice obiettivo quello che si intendeva conseguire. Per un verso si voleva offrire a costi sostenibili una casa agli italiani, per buona parte ancora sprovvisti di un tetto che non fosse pagato a carissimo prezzo.
L’incremento dei prezzi degli affitti, infatti, era una voce che incideva enormemente sui bilanci familiari, tale da avere ingenerato una vera e propria urgenza in tal senso. Si doveva agevolare il passaggio dalla condizione di affittuari poveri a quella di dignitosi inquilini e, in prospettiva, anche di proprietari, quanto meno laddove se ne fossero create le condizioni.
Il secondo obiettivo era quello di contrastare le tendenze speculative che attraversavano il mercato immobiliare, dove l’edilizia si era trasformata in una sorta di «terra di bengodi» per palazzinari senza scrupoli e per affaristi di ogni risma, alla faccia degli interessi della collettività.
La questione, in questo caso, era di natura politica, demandando al fatto che la destinazione e l’uso dei terreni a fini residenziali, soprattutto per quel che concerneva i quartieri di nuova costruzione nelle grandi e medie città, non poteva essere affare privato di pochi gruppi di potere, determinati nello spartirsi le fette di una ricca torta, fatta di notevolissimi guadagni, contro i bisogni della popolazione.
Le trasformazioni urbanistiche non potevano avvenire sulla base del caso né, tanto meno, sulla scorta di meri calcoli di interesse privati. Da ultimo, il terzo obiettivo era ancora una volta quello di incentivare lo sviluppo del lavoro edile, incrementando e qualificando l’occupazione dei cantieristi, che fossero manovali, operai o tecnici. Dal congresso casertano del 12 febbraio 1958 uscì così una linea di indirizzo che si basava su due punti fondamentali: incentivazione alla preparazione professionale e impulso alla cooperazione. In quegli stessi giorni, e nei mesi successivi, non meno intensa fu la discussione, dentro e oltre il Congresso, sulla pratica abituale da parte dei datori di lavoro di non rispettare i contratti, peraltro debitamente firmati dalle associazioni di categoria.
Quando nel mese di settembre del 1958 l’allora ministro del Lavoro Ezio Vigorelli, esponente del Partito socialdemocratico italiano, presentò un progetto di legge, poi approvato in prima battuta dal Consiglio dei ministri, per l’estensione «erga omnes» (ovvero su tutti gli appartenenti alla stessa categoria di lavoratori) degli effetti dei contratti nazionali di lavoro stipulati dalle associazioni sindacali dei lavoratori e degli imprenditori, si capì che forse un risultato fondamentale poteva essere finalmente conseguito.
In verità il percorso per tradurre le intenzioni in fatti si sarebbe rivelato tortuoso. Solo il 14 luglio dell’anno successivo, con l’approvazione in via definitiva della legge 741 da parte del Parlamento italiano, si arrivò alla sanzione legale di un fondamentale principio. Tale legge delegava il Governo, attraverso quelli che furono conosciuti come i «decreti Vigorelli », a recepire i contenuti dei contratti collettivi di diritto comune stipulati sino a quel momento.
L’obiettivo era quello di assicurare minimi inderogabili di trattamento economico e normativo a tutti gli appartenenti ad una stessa categoria. Contro la legge voluta dal ministro Vigorelli furono avanzati da più parti dubbi di legittimità costituzionale, anche perché attribuiva di fatto ai sindacati la forza di introdurre, sia pure per tramite di un decreto legislativo, attraverso gli esiti delle loro lotte contrattuali, delle norme con forza di legge nel nostro ordinamento giuridico.
Sta di fatto che il principio per il quale gli effetti degli accordi nazionali ricadono su tutti i membri di una categoria divenne, sia pure con molte fatiche e tantissimi ostacoli, moneta corrente.
Al mutamento in corso sul piano politico, di cui la legge voluta da Vigorelli era una espressione fondamentale, risposero da subito gli industriali del cemento, un sodalizio inossidabile, non meno forte di quello dei petrolieri, che dinanzi al nuovo round per i rinnovi contrattuali dichiararono da subito la loro totale indisponibilità.
Al massimo si sarebbe potuto ripetere quello che il contratto precedente prevedeva, senza però nessun miglioramento. Mentre le imprese, negli ultimi tre anni, erano andate cumulando una quantità notevole di profitti, mentre la produttività era visibilmente salita, mentre il volume degli affari era enormemente incrementato, i produttori di cemento dichiaravano che non c’era nulla da condividere né da spartire.
Per rincarare la dose alcuni di loro denunciavano poi quello che definivano come uno «stato di crisi alle porte», che di lì a non molto avrebbe coinvolto l’intero settore. La risposta dei lavoratori e del sindacato fu netta e inequivocabile.
Una serie di scioperi in massa, con punte di astensione anche del 100 per cento dei lavoratori, coinvolse i cementifici. La consapevolezza diffusa era che si trattasse di una prova di forza, in attesa evidentemente di aprire una offensiva contro la legge sui contratti che stava andando in porto in Parlamento.
Poiché all’innalzamento del livello dello scontro il sindacato intendeva reagire con tutte le risorse a sua disposizione, nell’aprile del 1959 anche la Feneal preannunciò, insieme alle altre organizzazioni di categoria, che era sua intenzione disdettare anticipatamente il contratto dell’industria edile, per aprire un fronte di lotta unico tra tutti i lavoratori del settore. Insomma, come dicono i francesi, «à la guerre comme à la guerre», ovvero nessun cedimento e risposta secca alle provocazioni degli imprenditori.
Si apriva così un nuovo terreno di confronto, nel mentre il paese, superato il lungo periodo della ricostruzione, era entrato a pieno titolo nella fase del boom economico, quello connotato da uno sviluppo che sarebbe durato ancora per diversi anni.
Claudio Vercelli