Le trasformazioni conosciute dal mondo del lavoro edile alla fine degli anni Sessanta sancirono il profilo, la composizione e la natura dei cantieri e di coloro che in essi vi erano impegnati, e di come gli uni e gli altri si sarebbero riproposti nei decenni successivi.
Il mutamento in edilizia si incrociò con la diffusione del modello della fabbrica fordista che, in Italia, celebrava la sua apoteosi proprio in quel tempo: l'officina con la catena di montaggio. La nuova divisione del lavoro in edilizia, la razionalizzazione produttiva (il cosiddetto "cantiere di montaggio"), comportò un forte aumento delle specializzazioni e una conseguente parcellizzazione delle mansioni. Questi dati erano consoni ai criteri produttivi presenti nell'industria manifatturiera, caratterizzata da elevati investimenti di capitali, da un impiego di manodopera a scarsa specializzazione, da un'intensificazione dei ritmi produttivi, da fenomeni di mobilità, da uno sviluppo dell'indotto, dei servizi e dell'outsourcing.
Le trasformazioni conosciute dal mondo del lavoro edile alla fine degli anni Sessanta sancirono il profilo, la composizione e la natura dei cantieri e di coloro che in essi vi erano impegnati, e di come gli uni e gli altri si sarebbero riproposti nei decenni successivi.
Il mutamento in edilizia si incrociò con la diffusione del modello della fabbrica fordista che, in Italia, celebrava la sua apoteosi proprio in quel tempo: l’officina con la catena di montaggio. La nuova divisione del lavoro in edilizia, la razionalizzazione produttiva (il cosiddetto “cantiere di montaggio”), comportò un forte aumento delle specializzazioni e una conseguente parcellizzazione delle mansioni. Questi dati erano consoni ai criteri produttivi presenti nell’industria manifatturiera, caratterizzata da elevati investimenti di capitali, da un impiego di manodopera a scarsa specializzazione, da un’intensificazione dei ritmi produttivi, da fenomeni di mobilità, da uno sviluppo dell’indotto, dei servizi e dell’outsourcing.
Le trasformazioni conosciute dal mondo del lavoro edile alla fine degli anni Sessanta sancirono il profilo, la composizione e la natura dei cantieri e di coloro che in essi vi erano impegnati, e di come gli uni e gli altri si sarebbero riproposti nei decenni successivi.
Il mutamento in edilizia si incrociò con la diffusione del modello della fabbrica fordista che, in Italia, celebrava la sua apoteosi proprio in quel tempo: l’officina con la catena di montaggio. La nuova divisione del lavoro in edilizia, la razionalizzazione produttiva (il cosiddetto “cantiere di montaggio”), comportò un forte aumento delle specializzazioni e una conseguente parcellizzazione delle mansioni. Questi dati erano consoni ai criteri produttivi presenti nell’industria manifatturiera, caratterizzata da elevati investimenti di capitali, da un impiego di manodopera a scarsa specializzazione, da un’intensificazione dei ritmi produttivi, da fenomeni di mobilità, da uno sviluppo dell’indotto, dei servizi e dell’outsourcing.
Nei cantieri si ridisegnarono le operazioni di trasporto dei materiali con una diversa collocazione della forza lavoro, in rapporto alle possibilità di maggiore rendimento legate all’utilizzazione della gru meccanica, ora cuore pulsante dell’attività edile.
Le gru vennero impiegate secondo una tempistica che valorizzasse al massimo la produttività e contenesse il più possibile l’autonomia dei singoli operai. Da ciò derivò la scomposizione delle mansioni del carpentiere in una serie di micro-specializzazioni legate all’edificazione di pilastri, travature, solai, tetti e così via. L’insieme di queste funzioni, frammentate e redistribuite tra una pluralità di persone abilitate a svolgerne sempre e solo una sola, consolidò l’acquisizione di competenze professionali e abilità manuali fondate sulla ripetizione continuativa dei medesimi gesti. Benché gli operai continuassero a lavorare come una squadra, prevaleva ora la concentrazione dei singoli sul proprio ristretto ambito di prestazione.
Il concerto delle attività si traduceva in un’accelerazione spontanea delle operazioni lavorative, quindi in un decremento dei tempi e in un aumento della produttività, non percepita però dal lavoratore nelle sue implicazioni. Alla metà degli anni Sessanta, l’introduzione dei solai con travetti prefabbricati limitò l’azione al solo collegamento degli elementi prefabbricati alle strutture portanti.
Chi lavorava il ferro fu chiamato a rispondere ad una complessa ristrutturazione della sua attività. Al controllo della produttività si aggiunse lo sforzo di unificare la produzione di ferro, realizzato ora dalle imprese fornitrici in dimensioni standard.
Così fu anche per i cementisti, ai quali si sottrasse la fase di preparazione del cemento, delegata a centrali di betonaggio esterne all’impresa costruttrice, in grado di rifornire nel medesimo tempo una pluralità di committenti presenti nelle stesse aree territoriali. Malgrado ciò, si misuravano ancora tempi morti rispetto alle operazioni necessarie per realizzare l’esatta collocazione dei contenitori in posizione di getto. Fu proprio per fare fronte a queste incongruenze che, a partire dai cantieri più grandi, si iniziò a fare ricorso a pompe per la distribuzione del cemento direttamente collegate dalle autobetoniere al punto di utilizzazione.
Questo criterio migliorò di molto i risultati, concorrendo ad abbattere quel che restava del controllo operaio sui ritmi, sui tempi e sulle modalità del ciclo produttivo edile. Lo stesso lavoro del muratore, per sua natura più lento poiché maggiormente legato alla competenza individuale, quindi con spazi di decisionalità personali, fu a sua volta rivisto. Si procedette ad un specializzazione delle attività, separando chi operava sui tramezzi da chi era impiegato nelle altre operazioni.
Da questo insieme di cambiamenti, derivanti da un adattamento imitativo del circuito delle imprese edili ai ritmi e alle logiche delle aziende metalmeccaniche, si generò un’ulteriore stratificazione della manodopera edile, con la formazione di squadre di lavoro che eseguivano parallelamente ma in team separati attività omogenee, mettendosi di fatto in competizione.
Il tutto per rispettare i tempi di consegna pattuiti con il committente e regolamentare i passaggi interni secondo una logica che sezionava l’avanzamento dei lavori in base a singoli passaggi, sui quali si esercitava un controllo non tanto di qualità quanto di tempistica. La strutturazione della forza lavoro in squadre specializzate comportò non solo un’economizzazione dei tempi necessari per completare una produzione, ma mise in tensione i gruppi di lavoratori, invitati a fare come e meglio degli altri gruppi in una competizione interna al lavoro di cantiere. Gli operai specializzati, o con maggiore anzianità ed esperienza, venivano utilizzati con funzioni di coordinamento, avendo tuttavia uno spazio decisionale ridotto o vincolato al management tecnico e aziendale.
Alla fine del decennio si calcolava che un gruppo di una dozzina di operai potesse edificare una palazzina per una decina di famiglie in non più di sei mesi. A fronte del fatto che, una volta ultimata l’opera con l’edificazione delle strutture portanti, del tetto e delle rifiniture, occorressero dai dodici ai ventiquattro mesi perché la casa iniziasse ad essere abitata.
Claudio Vercelli