Nelle seconda metà degli anni Cinquanta la condizione quotidiana dell'operaio edile era frequentemente difficile se non ai limiti dell'impossibile. Prevaleva ancora l'idea che si trattasse di un lavoro "povero", ovvero privo di qualsiasi attrattiva, esercitato da persone senza nessuna formazione e con ancora minori prospettive e aspettative di una qualche crescita professionale.
Non di meno il problema per i sindacati, e tra questi la Fenea, era quello di riuscire a organizzare i lavoratori, ossia raccoglierli sotto la sua tutela, facendoli così diventare protagonisti delle loro rivendicazioni, superando la tendenza all'individualismo che li rendeva invece facile prede delle vessazioni di una parte degli imprenditori, soprattutto di quelli che si erano inseriti in un mercato in espansione con totale assenza di scrupoli, pensando di potere sfruttare a proprio totale e incondizionato beneficio il lavoro altrui, senza alcun controllo.
Nelle seconda metà degli anni Cinquanta la condizione quotidiana dell’operaio edile era frequentemente difficile se non ai limiti dell’impossibile. Prevaleva ancora l’idea che si trattasse di un lavoro “povero”, ovvero privo di qualsiasi attrattiva, esercitato da persone senza nessuna formazione e con ancora minori prospettive e aspettative di una qualche crescita professionale.
Non di meno il problema per i sindacati, e tra questi la Fenea, era quello di riuscire a organizzare i lavoratori, ossia raccoglierli sotto la sua tutela, facendoli così diventare protagonisti delle loro rivendicazioni, superando la tendenza all’individualismo che li rendeva invece facile prede delle vessazioni di una parte degli imprenditori, soprattutto di quelli che si erano inseriti in un mercato in espansione con totale assenza di scrupoli, pensando di potere sfruttare a proprio totale e incondizionato beneficio il lavoro altrui, senza alcun controllo.
Nelle seconda metà degli anni Cinquanta la condizione quotidiana dell’operaio edile era frequentemente difficile se non ai limiti dell’impossibile. Prevaleva ancora l’idea che si trattasse di un lavoro “povero”, ovvero privo di qualsiasi attrattiva, esercitato da persone senza nessuna formazione e con ancora minori prospettive e aspettative di una qualche crescita professionale.
Non di meno il problema per i sindacati, e tra questi la Fenea, era quello di riuscire a organizzare i lavoratori, ossia raccoglierli sotto la sua tutela, facendoli così diventare protagonisti delle loro rivendicazioni, superando la tendenza all’individualismo che li rendeva invece facile prede delle vessazioni di una parte degli imprenditori, soprattutto di quelli che si erano inseriti in un mercato in espansione con totale assenza di scrupoli, pensando di potere sfruttare a proprio totale e incondizionato beneficio il lavoro altrui, senza alcun controllo.
La forbice con le attività industriali la si misurava peraltro su un indice fondamentale, il livello retributivo: se i manovali dell’industria arrivavano ad un salario d’ingaggio che variava dalle 35.000 alle 40.000 lire mensili quelli delle costruzioni non superavano le 25.000 lire. Lo scarto era poi ulteriormente accentuato da altri elementi, che in parte già abbiamo ricordato negli articoli precedenti: le condizioni di lavoro estremamente disagiate, la scarsa o nulla sicurezza nei cantieri (mentre nelle officine, soprattutto quelle delle grandi imprese, si andava diffondendo una cultura della tutela sempre più avanzata) ma anche la mancanza o la carenza di istituti sociali di protezione come l’indennità di malattia, di disoccupazione, d’infortunio.
Non di meno prevaleva la tendenza, pervicace tra certi imprenditori, a non tenere fede agli accordi raggiunti e stipulati, pensando che a conti fatti questi potessero essere considerati alla stregua di “carta straccia”. Un problema drammatico in edilizia, soprattutto in quella parte che era coinvolta nella realizzazione delle opere pubbliche, era il sistema dei subappalti, in ragione del quale l’impresa vincitrice di una gara affidava l’esecuzione del lavoro, o di rilevanti parti di esso, ad imprese terze. In tal modo, ovvero attraverso la traslazione dell’esecuzione delle attività da un soggetto imprenditoriale all’altro (soprattutto verso le piccole aziende, non infrequentemente costituite per eseguire i singoli incarichi ricevuti), il controllo del lavoro – e la sua tutela contrattuale – sfuggiva completamente al sindacato.
Nel 1957, con la nascita del Mercato comune europeo, che introduceva nell’economia italiana elementi di prospettiva fino ad allora impensati, non da ultimo la possibilità di forti integrazioni con i mercati del lavoro degli altri paesi europei, durante le trattative per il nuovo contratto nazionale i sindacati dei lavoratori edili avanzarono la richiesta di abolire il sistema generalizzato dei subappalti, cosa che fu rifiutata dalla controparte imprenditoriale. In tale sede la posizione Fenea, peraltro, era estremamente articolata, non riducendosi solo alla pur necessaria richiesta di una generalizzata revisione delle retribuzioni – considerate ingiustificatamente basse – ma richiamando tutta una serie di misure ritenute oramai inderogabili: la fissazione di tariffe di cottimo per le principali voci di lavorazione; la definizione di minimi di rendimento per evitare il forsennato sfruttamento del lavoro umano; il riconoscimento del maggiore sforzo fisico derivante dall’introduzione di nuovi macchinari, utilizzati per rendere più intensive (e quindi onerose) le prestazioni; una ragionevole e continuativa politica di addestramento professionale, basata sulla formazione permanente e sull’aggiornamento costante dei lavoratori non meno che sulla sensibilizzazione delle controparti imprenditoriali rispetto al fatto che sarebbe stato nel loro stesso interesse avere a che fare con una manodopera più consapevole delle sue funzioni.
Del pari il Segretario generale Fenea Giordano Gattamorta si adoperò per l’introduzione di una Cassa integrazione salari che potesse permettere sia di far fronte ai periodi di disoccupazione che alla perdita di giornate lavorative dovute all’inclemenza del tempo.
All’epoca la normativa al riguardo era congeniata in modo tale da costituire un fattore di enorme penalizzazione per i lavoratori. Per Gattamorta si trattava di affidare alla categoria, attraverso le casse edili, la gestione del fondo per potere così raggiungere l’obiettivo di una maggiore protezione degli associati.
Il 24 settembre 1957, infine, il nuovo contratto veniva finalmente firmato. Se i risultati risultarono convincenti sul piano degli incrementi salariali, con una media di aumento del 9,50 per cento (del 7,60 per i manovali, del 12,30 per gli specializzati), molto di meno lo furono gli esiti su altri piani. In buona sostanza, il contratto del 1957 sanciva il fatto che quel che contava era la “monetizzazione” del lavoro, ovvero la possibilità di riconoscerne economicamente la sua importanza.
Tuttavia, sul piano dell’estensione delle garanzie, le cose risultavano di ben altro tenore. Come già si è detto, non si cancellò il sistema diffusissimo dei subappalti, invocando invece il ricorso ad esso in regime di «maggiore disciplina e oculatezza » (una formula priva di contenuti che, di fatto, lasciava tutto inalterato); sull’introduzione del principio di obbligatorietà del ricorso alle casse e alle scuole edili si glissò più o meno elegantemente, dicendo che ci si sarebbe impegnati se e quando possibile; il lavoro a cottimo, inoltre, non fu regolamentato, così come altrimenti richiesto, attraverso tariffe provinciali.
Insomma, il nuovo contratto era tutto orientato su quella “filosofia del salario” che riduceva la prestazione di lavoro ad uno scambio immediato tra fatica e denaro. Il resto poteva attendere, in buona sostanza. D’altro canto, quel che il sindacato misurava in quegli anni era l’arroganza del padronato edile, beatificato del «miracolo economico», dal piano Fanfani per la costruzione di un sistema di edilizia sociale, ovvero popolare e convenzionata, dalla sorprendente crescita economica che stava investendo tutto il paese ma anche dall’avvio di quei processi di migrazione interna che dal Sud avrebbero portato milioni di lavoratori – e le loro famiglie – nelle zone a più alta densità industriale, ed in particolare a Torino, a Genova e a Milano.
La Fenea, nel clima di mutamento che stava investendo l’Italia, celebrò così il suo terzo congresso nazionale, il 12 febbraio del 1958 a Caserta. Fu in questa occasione che mutò la sua denominazione, trasformandosi in Feneal poiché aveva incorporato al suo interno anche la rappresentanza dei lavoratori delle industrie del legno. La prospettiva con la quale guardare i processi economici in atto doveva essere all’altezza della sfida dei tempi. Si era oramai in Europa. La questione del trattamento dei lavoratori, ed in particolare di quelli dell’edilizia, del loro benessere e del loro futuro, non era più un affare da circoscrivere all’interno dei solo confini nazionali.
Gli italiani si muovevano alla ricerca di lavoro, avendo come meta molti Paesi continentali, recettivi all’offerta di manodopera. Il sindacato si trovava così a dovere assumere ulteriori funzioni, oltre a quelle tradizionalmente proprie, legate alla rappresentanza e alla contrattazione a nome e per conto dei lavoratori in sede nazionale. Questi ultimi, soprattutto se espatriati, chiedevano tutele e garanzie dinanzi a situazioni dove risultavano essere privi anche dei più elementari strumenti di autodifesa. A fronte di bisogni la cui soddisfazione era inderogabile (una abitazione, un salario decente, la possibilità di inviare una parte dei propri guadagni alle famiglie) si ponevano questioni nuove e non meno urgenti: la non conoscenza della lingua, l’ignoranza delle abitudini e degli usi locali, la difficoltà a relazionarsi con la popolazione e così via.
Per la Feneal la questione era duplice. Prima di tutto si trattava di dare corso ad un’azione di difesa diretta, per mezzo dei patronati. Questi ultimi erano (e rimangono a tutt’oggi) istituti riconosciuti dalla legge già a partire dal 1947. La loro funzione era quella di rappresentare e di tutelare i diritti individuali dei lavoratori, dei pensionati e di tutti i cittadini presenti sul territorio di un determinato Stato.
L’attività di assistenza e consulenza di un patronato è infatti da sempre mirata al conseguimento di prestazioni previdenziali, sanitarie e di carattere socio- assistenziale, incluse quelle in materia di emigrazione e immigrazione. La legge prevedeva che tali istituti potessero svolgere attività di supporto ad autorità diplomatiche e consolari italiane all’estero. Un altro aspetto fondamentale dell’azione della Feneal era il consolidamento dei rapporti con i sindacati omologhi presenti negli altri Paesi. Peraltro, i due terzi dei lavoratori italiani all’estero era costituita da edili. La Uil e la Cisl erano legate alla ICFTU, la International Confederation of Free Trade Unions, nata il 7 dicembre 1949 in rottura con la World Federation of Trade Unions di ispirazione comunista.
L’impegno del sindacato riformista e cristiano era particolarmente intenso in Europa ma richiedeva un ulteriore sforzo poiché l’integrazione continentale, tra i diversi mercati, stava oramai facendo passi da gigante.
Per l’appunto in questo clima, si aprì il terzo congresso, il primo di natura internazionale, vista la presenza di delegati stranieri non meno che l’orizzonte sul quale articolare le riflessioni, al di là delle abituali frontiere.
Claudio Vercelli