Il 1965 fu contraddistinto dalle lotte per il rinnovo del contratto degli edili. In un primo momento le cose non andarono bene. Contrariamente a quanto si è abituati a pensare oggi, rimpiangendo i tempi che furono e indulgendo nella convinzione che gli anni Sessanta costituissero un’età dell’oro, dove tutto funzionava alla perfezione, le difficoltà che i lavoratori e le organizzazioni sindacali si trovavano a dovere affrontare erano molte. La controparte padronale era, il più delle volte, assente rispetto a qualsiasi sollecitazione riformista, se non dichiaratamente ostile.
La vecchia e purtroppo consolidata nomea del settore edile come luogo dove confluivano i lavoratori più “deboli”, quelli a minore tasso di formazione (quindi con un grado più basso di diritti e facilmente intercambiabili), era alimentata da molti imprenditori, interessati così a garantirsi condizioni ottimali di sfruttamento dei dipendenti.
Il 1965 fu contraddistinto dalle lotte per il rinnovo del contratto degli edili. In un primo momento le cose non andarono bene. Contrariamente a quanto si è abituati a pensare oggi, rimpiangendo i tempi che furono e indulgendo nella convinzione che gli anni Sessanta costituissero un’età dell’oro, dove tutto funzionava alla perfezione, le difficoltà che i lavoratori e le organizzazioni sindacali si trovavano a dovere affrontare erano molte. La controparte padronale era, il più delle volte, assente rispetto a qualsiasi sollecitazione riformista, se non dichiaratamente ostile.
La vecchia e purtroppo consolidata nomea del settore edile come luogo dove confluivano i lavoratori più “deboli”, quelli a minore tasso di formazione (quindi con un grado più basso di diritti e facilmente intercambiabili), era alimentata da molti imprenditori, interessati così a garantirsi condizioni ottimali di sfruttamento dei dipendenti.
In tale modo, infatti, si lasciava intendere che una massa di individui privi di qualsiasi specializzazione e competenza costituisse della semplice merce, all’occasione da usare e da gettare. Era una falsa verità, poiché il grado di competenza e i livelli di specializzazione della manodopera edile si erano di molto raffinati dal dopoguerra in poi. Vuoi per l’esperienza che una parte d’essa aveva maturato, vuoi per la diffusione dei percorsi formativi. Un solo esempio, tra i diversi possibili: con l’introduzione della scuola unificata in Italia, una delle riforme volute dal centrosinistra, il numero di diplomati andò aumentando e ciò si riflesse anche nella composizione della forza lavoro. Sull’altro versante, quello dei poteri pubblici, il centrosinistra, che aveva già esaurito da tempo la sua carica innovativa e propulsiva, faticava a tenere il passo con le richieste del mondo del lavoro.
Il problema non era solo quello della insensibilità di una parte della politica, soprattutto tra la classe dirigente liberale, ma anche e soprattutto la questione delle amministrazioni. Nessun eletto o nominato, che fosse in Parlamento o al Governo, che operasse negli enti locali piuttosto che in qualche assemblea legislativa, poteva contare su un grado sufficiente di autonomia rispetto alla persistente inerzialità delle ramificatissime amministrazioni centrali e periferiche dello Stato, dove i componenti (tutti dipendenti pubblici) tardavano a capire quale fosse il mutamento di scenario che le trasformazioni della società italiana negli ultimi vent’anni aveva innescato.
Le sacche di resistenza al cambiamento erano tantissime e in alcuni casi si traducevano in un vero e proprio sabotaggio di ogni azione riformista. Il sindacato, poi, era visto come il diavolo. Nella sua funzione di organizzatore dei diritti della comunità dei lavoratori e di soggetto dell’innovazione sociale, veniva inteso da una parte consistente della vecchia burocrazia (cresciuta negli anni del fascismo, del cui autoritarismo rimaneva depositaria), un agente della sovversione. La società italiana di quegli anni era attraversata da spinte molteplici e contraddittorie. Se c’erano milioni di donne e uomini che spingevano per il cambiamento che n’erano altrettanti che frenavano in tutti i modi. Per la Feneal poi, oltre alle innumerevoli criticità del settore, si aggiungeva il problema del rapporto con il sindacalismo comunista, con il quale da sempre era in atto una competizione di natura non solo politica ma anche culturale.
La Cgil era infatti portatrice di un’idea di società che, rifacendosi per più aspetti al modello comunista, sembrava promettere ai suoi iscritti qualcosa di più dei benefici, spesso modesti, di una lotta contrattuale. Si trattava di una promessa pseudo-rivoluzionaria invitante quanto irrealizzabile: la possibilità di una società liberata dalla presenza del capitale e dalla morsa del padronato. Non un mondo perfettibile, da raggiungere con le lotte, bensì un paradiso in terra da desiderare. E che mai si sarebbe realizzato, come poi la storia si è incaricata di dimostrarci. Ma tanto bastava per accendere gli animi, da una parte, esacerbando l’impegno e alzando il livello dello scontro, e dall’altro per isolare i riformisti.
I quali dovevano a loro volta tenere in considerazione le criticità del governo, le difficoltà con le quali i partiti del cambiamento dovevano fare i conti.
A volte anche con affanno e dolorosamente. Poiché la minaccia di un ribaltamento del tavolo del confronto, di una sovversione delle regole del gioco, di un “golpe” qualora le richieste della collettività dei lavoratori avessero superato la “soglia del sopportabile”, era dietro l’angolo. Questa tenaglia tra la minacciosità delle élite dirigenti, che non volevano perdere nulla delle prerogative di ceto e dei privilegi propri, e il radicalismo degli interlocutori comunisti, tradottosi in opposizione di principio, pregiudiziale nei confronti dello stesso centrosinistra, contribuì a depotenziare l’impatto dell’azione del sindacato riformista non solo nei luoghi di lavoro ma anche nella società. E lo obbligò a limitarsi alla rivendicazione di un trattamento migliore per i lavoratori, impedendogli di affrontare un progetto di più ampio respiro.
Claudio Vercelli