Con gli anni Sessanta si era entrati in un decennio che, con sguardo retrospettivo, sarebbe stato giudicato come unico e irripetibile. L'economia tirava al massimo e l'edilizia ne era divenuta un volano fondamentale.
Il triennio che va dal 1960 al 1963 fu quello di maggiore espansione dell'industria delle costruzioni. Contavano in tale risultato molti fattori che, legandosi gli uni agli altri, facevano sì che il settore fosse divenuto un po' il centro dello sviluppo del Paese. Le migrazioni interne di manodopera, quasi esclusivamente dal sud verso il nord d'Italia, stavano incrementando le dimensioni delle grandi città settentrionali, laddove l'industria cresceva di giorno in giorno.
Con gli anni Sessanta si era entrati in un decennio che, con sguardo retrospettivo, sarebbe stato giudicato come unico e irripetibile. L’economia tirava al massimo e l’edilizia ne era divenuta un volano fondamentale.
Il triennio che va dal 1960 al 1963 fu quello di maggiore espansione dell’industria delle costruzioni. Contavano in tale risultato molti fattori che, legandosi gli uni agli altri, facevano sì che il settore fosse divenuto un po’ il centro dello sviluppo del Paese. Le migrazioni interne di manodopera, quasi esclusivamente dal sud verso il nord d’Italia, stavano incrementando le dimensioni delle grandi città settentrionali, laddove l’industria cresceva di giorno in giorno.
Con gli anni Sessanta si era entrati in un decennio che, con sguardo retrospettivo, sarebbe stato giudicato come unico e irripetibile. L’economia tirava al massimo e l’edilizia ne era divenuta un volano fondamentale.
Il triennio che va dal 1960 al 1963 fu quello di maggiore espansione dell’industria delle costruzioni. Contavano in tale risultato molti fattori che, legandosi gli uni agli altri, facevano sì che il settore fosse divenuto un po’ il centro dello sviluppo del Paese. Le migrazioni interne di manodopera, quasi esclusivamente dal sud verso il nord d’Italia, stavano incrementando le dimensioni delle grandi città settentrionali, laddove l’industria cresceva di giorno in giorno. Da ciò derivava un costante aumento del fabbisogno di abitazioni, al quale si associava una crescita della qualità della domanda di vani, dovuta all’incremento del reddito, alla maggiore circolazione di moneta, all’aumento delle esigenze della popolazione. Non bastava più un tetto, pur che fosse: lo si voleva, possibilmente, di buona qualità.
All’aumento dei consumi corrispondeva peraltro una lievitazione del costo delle abitazioni, fatto quest’ultimo che sollecitava gli investimenti nel settore. Riepilogando, le cose stavano così: più domanda, maggiore lavoro, più reddito, incremento del valore del costruito, maggiori profitti, investimenti crescenti nel settore immobiliare. Una sorta di circolo virtuoso si era così creato. Se nel 1960 le abitazioni costruite erano state 290.577 l’anno successivo erano già passate a 313.409, nel 1962 divenivano 362.684, nel 1963 ben 417.124 per poi, nel 1964, arrivare alla cifra di 450.000.
Era una vera e propria esplosione, un boom che però aveva anche le sue controindicazioni.
Il mercato era in mano pressoché integralmente agli investitori privati, sia per quel che riguardava la proprietà delle aree edificabili che per le costruzioni medesime.
Malgrado alcuni timidi tentativi di introdurre dei correttivi riformistici, tesi a garantire un qualche controllo per parte dei poteri pubblici sulla massiccia espansione delle abitazioni (e dei centri abitati), quindi del regime dei suoli urbani, di fatto ben poco se non nulla era mutato. L’intervento pubblico nell’edilizia residenziale toccò il punto più basso nel biennio 1962-1963, quando arrivò in tutto al 4% dell’insieme degli investimenti in abitazioni. Gli squilibri che ne derivavano erano molteplici. Il mercato dell’edilizia popolare era perlopiù ignorato dai grandi costruttori.
Ciò faceva sì che domanda di vani e loro concreta offerta non si incontrassero. Non di meno, gli interessi della rendita fondiaria non venivano in alcun modo intaccati, cosicché i costi di produzione e, più in generale, lo sviluppo urbanistico delle grandi città seguivano dei trend poco o nulla orientati, in assenza di concreti vincoli legislativi e amministrativi.
L’intreccio di interessi tra la speculazione fondiaria e l’imprenditoria edile stringeva poi come una morsa l’intero settore.
I governi di centro sinistra tentarono, sebbene in maniera peraltro a volte stentorea e incerta, di porre un argine a questa evoluzione, che si traduceva in grandi profitti per pochi e in innumerevoli distorsioni per buona parte dei cittadini (e, in prospettiva, anche per le amministrazioni locali, che subivano il cambiamento del tessuto e della morfologia urbana senza poterne influire in alcun modo). Il tentativo di una radicale riforma urbanistica, caldeggiata da molti, di fatto già nel 1962 si era arenata dinanzi agli innumerevoli interessi che ad essa erano andati contrapponendosi.
La legge 167 di quell’anno, intitolata «Disposizioni per favorire l’acquisizione di aree fabbricabili per l’edilizia economico- popolare», doveva rendere i Comuni parte attiva con la redazione di un programma decennale su quelle aree che sarebbero state destinate ad interventi di edilizia popolare. Queste ultime si sarebbero dovute acquistare a un prezzo inferiore a quello di mercato. A distanza di un anno, nel 1963, il Parlamento approvò un’altra legge, la 246, che avrebbe dovuto creare i fondi per finanziare quella precedente per il tramite di una tassazione sugli incrementi di valore delle aree edificabili. Ma l’intera operazione non ebbe seguito, anche per l’intervento della Corte costituzionale che tacciò di «incostituzionalità» le indennità di esproprio che erano state previste.
L’allora ministro dei Lavori pubblici Fiorentino Sullo si adoperò quindi per una nuova legge urbanistica che conteneva alcuni principi innovativi (come l’esproprio generalizzato dei suoli urbani sulla base del loro valore agricolo e l’istituzione del «diritto di superficie » contro la rendita fondiaria) ma la forte opposizione, soprattutto della stampa più conservatrice, che rappresentava gli interessi di una parte delle associazioni dei costruttori e della proprietà edilizia, la fece prematuramente naufragare. Intorno al bersagliamento del progetto Sullo, presentato dai suoi detrattori come una manovra «eversiva», si concentrarono quanti volevano arrestare ogni evoluzione riformista del quadro politico. Cosa che infatti puntualmente avvenne.
In generale il mondo dell’edilizia, in quel periodo, era fortemente caratterizzato dal ricorso al cemento armato, da una scarsa (se non nulla) meccanizzazione del ciclo di costruzione (soprattutto nelle piccole aziende), dall’utilizzazione estensiva della forza lavoro (tante braccia, poco qualificate), dai benefici effetti per le imprese di una politica salariale, praticata nel decennio precedente, basata sulle basse retribuzioni, da una ancora limitata incidenza delle organizzazioni sindacali nei cantieri.
La prima metà degli anni Sessanta, tuttavia, segnò un mutamento profondo. L’espansione economica crescente e la domanda di abitazioni, indipendentemente da come quest’ultima venisse soddisfatta, favorirono la crescita del lavoro e l’impiego sempre più diffuso di manodopera.
Da ciò derivò una crescita della capacità di contrattazione del lavoro medesimo, sempre più consapevole del suo valore contrattuale.
Già tra il 1958 e il 1959, anche sulla base di quanto avveniva nel settore metalmeccanico, si era registrato un nuovo ciclo di lotte e una crescente mobilitazione sindacale, basate l’uno e l’altra su una piattaforma che prevedeva aumenti salariali, riduzioni dell’orario di lavoro, un nuovo assetto delle qualifiche, contrattazione degli organici.
La Feneal aveva registrato, attraverso la crescita del numero di iscritti, il mutamento in corso. Ciò imponeva di rendere la propria struttura interna maggiormente coerente con le esigenze di una situazione in evoluzione. Nella conferenza organizzativa del gennaio del 1962 questa esigenza fu raccolta e tradotta in atti concreti. Il segretario generale Luciano Rufino identificava in alcuni passaggi i punti salienti di una strategia sindacale riformista in sintonia con lo spirito dei tempi. In particolare erano indicati come prioritari la contrattazione di settore, l’eliminazione delle zone salariali (e delle sperequazioni di trattamento che la loro permanenza avrebbe altrimenti ingenerato), un forte incremento dell’edilizia pubblica (che si scontrava però con le resistenze dell’imprenditoria privata) e, più in generale, l’esigenza di un indirizzo di fondo rispetto al tumultuoso sviluppo economico e sociale in corso nel Paese.
In realtà, al di là ed oltre le richieste specifiche legate alle necessità contrattuali delle categorie di lavoratori rappresentati, quello che andava emergendo era una più generale necessità, della quale la Uil andava facendosi carico, ossia quella di legare la tumultuosa trasformazione economica in corso in Italia ad una maggiore equità sociale. Si trattava di una questione che rimandava ad un nuovo equilibrio nella distribuzione del reddito ma anche, sull’altro versante, ai criteri e ai modi di accumulazione della ricchezza.
L’opzione riformista si poneva come obiettivo di fondo quello di garantire una trasformazione progressiva dei rapporti di forza tra capitale e lavoro, permettendo al secondo di divenire, come la stessa Costituzione repubblicana ricorda, a partire dal primo articolo della sua carta, il fulcro dell’evoluzione del Paese. L’orizzonte della giustizia sociale non doveva essere il prodotto di una “concessione” dall’alto, una sorta di grazioso omaggio da parte di chi aveva di più e si collocava sul versante del potere nei rapporti di forza, ma l’obiettivo sul quale indirizzare l’intera società italiana. Senza di essa si sarebbe ottenuta la crescita economica ma non lo sviluppo sociale e culturale. Era quindi in quest’ottica, ossia avendo a riferimento una tale ispirazione, che la Feneal nel settembre del 1962, avanzò alle controparti imprenditoriali la richiesta di una revisione salariale del contratto nazionale dell’edilizia, firmato un anno prima ed entrato in vigore nei mesi successivi.
Dietro all’accelerazione così impressa, prima ancora che la legittima considerazione sulla necessità di redistribuire la molta ricchezza che si stava vorticosamente creando, evitando che si concentrasse tutta nelle stesse mani, vi era un disegno politico preciso, che voleva incalzare il padronato sul problema dello sviluppo anche in campo edile.
Se nel 1951 la parte del prodotto netto che andava a salari e stipendi era del 48% ora, nella prima metà degli anni Sessanta, si era ridotta al 20%, mentre quella riferita ai profitti, alle rendite e agli interessi da capitale era cresciuta dal 50 all’80%.
Non di meno, la media del salario lordo, che all’inizio degli anni Cinquanta era di 126,77 lire, in dieci anni era cresciuta a poco meno di 170 lire mentre il prodotto netto delle costruzioni rispetto al prodotto interno lordo italiano era passato, percentualmente, dal 3,4 al 9,3 (rispetto al settore metalmeccanico la differenza era ancora più marcata, essendo cresciuto dall’8,2 al 19,7%).
Un’asimmetria gigantesca, che premiava il capitale edile, facendo crescere immense fortune private, non poteva essere tollerata, tanto più quando molti lavoratori, e le loro famiglie, si trovavano a vivere ancora in condizione di estrema modestia, per non dire di povertà.
Se la risposta degli industriali a livello nazionale fu un secco rifiuto, sul piano provinciale si aprirono invece una serie di lotte che ben presto permisero, ad una grande parte dei lavoratori, di vedersi aumentare anche del 15% le loro retribuzioni. Verso la fine del 1962, inoltre, la legge che istituiva la gestione speciale per l’edilizia della cassa integrazione guadagni veniva presentata in Parlamento mentre i lavoratori del cemento vedevano accolta la richiesta per la parità salariale tra uomini e donne.
Il 1962 si chiudeva quindi su note più che positive, registrando una serie di significativi successi.
Cosa sarebbe successo nell’anno successivo, che si annunciava non meno impegnativo?
Claudio Vercelli