La storia dei rapporti tra imprese, lavoratori e rappresentanze sindacali in campo edile può essere letta in tanti modi ma un aspetto che sempre emerge, nel passato come anche nel presente, è la lotta contro le forme, più o meno camuffate, di raggiramento degli accordi assunti in sede di contrattazione. Perché ad una decisione contrattuale sofferta ma, infine, raggiunta, e quindi condivisa e sottoscritta con la controparte per la tutela degli operai nei cantieri, si sovrapponeva, ben presto, la concreta condotta, da parte datoriale, per disattivarne gli effetti.
Il rinnovo del contratto nella stagione 1972-1973 ne fu infatti la cartina di tornasole.
Se Feneal, Fillea e Filca avevano presentato una piattaforma unitaria che rivendicava esplicitamente il «divieto di subappalto in tutte le fasi principali di lavorazione che investono il processo produttivo», di fatto la richiesta si tradusse in una diversa impostazione di fondo, sancita poi dagli eventi medesimi, per la quale si arrivò alla sostanziale regolazione del subappalto.
La storia dei rapporti tra imprese, lavoratori e rappresentanze sindacali in campo edile può essere letta in tanti modi ma un aspetto che sempre emerge, nel passato come anche nel presente, è la lotta contro le forme, più o meno camuffate, di raggiramento degli accordi assunti in sede di contrattazione. Perché ad una decisione contrattuale sofferta ma, infine, raggiunta, e quindi condivisa e sottoscritta con la controparte per la tutela degli operai nei cantieri, si sovrapponeva, ben presto, la concreta condotta, da parte datoriale, per disattivarne gli effetti.
Il rinnovo del contratto nella stagione 1972-1973 ne fu infatti la cartina di tornasole.
Se Feneal, Fillea e Filca avevano presentato una piattaforma unitaria che rivendicava esplicitamente il «divieto di subappalto in tutte le fasi principali di lavorazione che investono il processo produttivo», di fatto la richiesta si tradusse in una diversa impostazione di fondo, sancita poi dagli eventi medesimi, per la quale si arrivò alla sostanziale regolazione del subappalto.
Il contratto nazionale del 1973, infatti, pur statuendo il divieto del cottimismo e della interposizione nelle prestazioni di lavoro, stabilì la sostanziale accettabilità della cessione in subappalto di lavorazioni anche ad imprese la cui struttura tecnologica risultasse scarsamente definita così come la natura giuridica e il regime amministrativo. La questione non era di poco conto, poiché tendeva a ledere i principi della trasparenza del processo produttivo e dell’estensione, a tutti i lavoratori chiamativi in causa, delle tutele e delle curatele previste dal contratto medesimo.
Si determinò quindi una condizione per cui la normativa concordata in sede contrattuale tendeva essenzialmente a regolare il subappalto e non a cancellarlo.
Certo, tale impatto veniva attenuato dal fatto che un articolo del contratto stesso istituisse la responsabilità dell’impresa appaltante, laddove si determinava l’obbligo per questa di comunicare alla Cassa edile, e agli Istituti per le assicurazioni obbligatorie di assistenza e previdenza, la denominazione di ogni impresa di subappalto e la dichiarazione di adesione della stessa al contratto nazionale come agli accordi locali, istituendo, inoltre, la responsabilità in solido dell’impresa appaltante nel caso di violazione della normativa contrattuale.
Si trattava, ad onore del vero, non del migliore risultato ottenibile ma di quello meno peggiore. Perché al tavolo delle trattative, frequentemente le cose vanno così. Si apriva tuttavia un pericoloso varco alla rilegittimazione del ricorso al subappalto in segmenti centrali del ciclo produttivo, mentre rimaneva ai margini la questione, non meno strategica, del controllo dell’organizzazione del lavoro all’interno delle imprese di subappalto.
Che, malgrado tutti gli sforzi di emersione e regolamentazione, continuavano ad essere una sorta di vero e proprio microcosmo di soggetti al limite dell’inconoscibilità. Se in queste ultime l’intensificazione dello sfruttamento, attraverso il ricorso sistematico al cottimismo, in un clima di incontrollata concorrenza tra gli stessi lavoratori, alimentava una sorta di “terra di nessuno”, dove le norme erano abbondantemente eluse, il pensare che ciò non si riflettesse anche tra le aziende che, invece, le rispettavano, rischiava, alla resa dei conti, di risultare illusorio.
Poiché nel mercato del lavoro edile l’irregolarità da sempre tende ad “infettare”, in misura virale, le isole di legalità. Tentazione troppo forte, in altre parole, per chi, allora come oggi, ha sempre praticato la deregolamentazione. Le dinamiche del mercato del lavoro, nonché delle logiche di impresa, si riflettevano peraltro, in un rapporto di reciprocità, ossia di scambio biunivoco, con l’andamento generale dell’industria delle costruzioni negli anni Settanta. La quale si confrontava con le mutate situazioni di un’economia, quella italiana, che veniva investita, del pari se non più delle gemelle europee, dagli effetti dello shock petrolifero e dall’avvitarsi dei processi inflattivi, che per almeno un decennio avrebbero dominato l’intero scenario nazionale. Si determinava una situazione a tratti paradossale.
Da un lato, la perdita di potere della moneta ingenerava un incremento della domanda di beni-rifugio. Il mattone, all’epoca, sembrava offrire, insieme all’oro, un porto d’approdo convincente. La tassazione era relativamente contenuta e la sua monetizzazione diffusa. Ciò consentì lo smaltimento di parte dello stock di abitazioni invendute, a fronte di livelli di produzione di nuove costruzioni piuttosto basso.
Se nel 1973 erano state ultimate 196.640 abitazioni, l’anno successivo si scese a 180.698. Di fatto i dati confermavano una dimensione recessiva (nel 1971 si era giunti invece a ben 360.596 nuove abitazioni). Negli anni successivi la produzione edilizia si sarebbe stabilizzata su queste dimensioni di grandezza.
Dall’altro lato il mercato edilizio continuava a riprodurre quei meccanismi interni che erano alla base delle sue stesse difficoltà: la prevalenza dell’intervento privato nella produzione di case non popolari, quando la domanda al riguardo tendeva ad essere soddisfatta dalle eccedenze precedenti mentre, nel medesimo tempo, rimaneva invece inevasa la richiesta di abitazioni economiche; il decremento dell’intervento pubblico nel settore dell’edilizia abitativa; il sostegno dello Stato al settore privato perlopiù attraverso provvedimenti fiscali e creditizi volti a favorire la diffusione della casa in proprietà in un contesto, tuttavia, caratterizzato dall’assenza di pianificazione edilizia e urbanistica.
Questi ed altri fattori convergevano nel determinare l’affaticamento della stessa iniziativa privata, spesso sempre più avulsa dalle esigenze effettive del mercato. Lo sviluppo precedente di aree differenziate della produzione edilizia, a partire dalle seconde case, che fino ad allora aveva permesso di superare alcuni dei fattori di criticità che si erano manifestati negli anni Sessanta, tendeva quindi, passo dopo passo, ad esaurirsi. Parallelamente a ciò, il perdurare delle tensioni sociali legate al problema della casa, si tradusse nell’emanazione di provvedimenti volti, in quest’ultimo caso, ad affrontare con un po’ più di respiro e lungimiranza la questione dell’edilizia economico-popolare sulla quale, durante gli anni Settanta, iniziò a spostarsi progressivamente l’attenzione anche dell’edilizia privata.
Non che quest’ultima reputasse il settore come economicamente molto appetibile ma, non di meno, registrava oramai l’effetto di saturazione manifestatosi abbondantemente negli altri segmenti di mercato. Anche per tali ragioni, quindi, si produsse la spinta affinché il Parlamento lavorasse nel senso di generare da sé le condizioni per agevolare, una volta per sempre, il soddisfacimento della domanda crescente. Così nel caso della legge 865 del 1971, che interveniva su una pluralità di materie, ossia i «programmi e il coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; le norme sulla espropriazione per pubblica utilità; le modifiche ed integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; l’autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata»; la legge 166 del 1975, contenente «norme per interventi straordinari di emergenza per l’attività edilizia»; la legge 513 dell’agosto 1977, relativa a «provvedimenti urgenti per l’accelerazione di programmi in corso, finanziamento di un programma straordinario e canone minimo dell’edilizia residenziale pubblica». In realtà queste ed altre disposizioni normative provvedevano, sulla scorta di una parola chiave, l’«emergenza», ad un riordino generale delle competenze in materia di edilizia residenziale pubblica, sia per quanto riguardava i livelli istituzionali di programmazione e gestione, sia per ciò che concerneva le risorse finanziarie.
Si procedette, così, al finanziamento di un programma triennale, all’ipotesi di costruzione unitaria di grandi quartieri, all’avvio delle politiche di recupero dell’esistente.
I programmi straordinari previsti dalla successione di leggi agevolarono e intensificarono la destinazione di fondi per il risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, di proprietà pubblica e indicarono nuove norme tecniche, destinate a valere per tutta l’edilizia, anche privata, e prevalenti anche sulle disposizioni dei regolamenti comunali.
Di fatto l’insieme di questi provvedimenti, che si inserivano nell’arco storico delle attività sull’edilizia popolare, avviate dallo Stato unitario nel 1903 con l’allora legge Luzzatti, che creava gli istituti per le case popolare, divenne una vera e propria stampella, da quel momento imprescindibile, nel rilancio produttivo dell’industria delle costruzioni, altrimenti destinata ad una crisi irreversibile.
L’intervento pubblico, in tale modo, supportò sempre di più l’azione privata, affermandosi come una costante che sarebbe durata, con sistematicità, per due decenni, fino agli anni Novanta. Rimaneva il fatto che a fronte di questa vera e propria offensiva legislativa, e del conseguente trasferimento di risorse verso gli obiettivi indicati dalle norme, la contraddittorietà, la sovrapposizione e le incongruenze nei meccanismi di sviluppo del settore erano ancora ben lontani dall’essere efficacemente aggrediti e, quindi, risolti.
In realtà, non lo saranno mai. Mentre infatti la frammentarietà degli interventi statali, non orientati da una organica volontà politica di superamento delle strozzature presenti nel mercato edilizio, non affrontava adeguatamente la domanda di abitazioni economiche, rimaneva e perdurava il ruolo della rendita fondiaria. Molti provvedimenti, a tale riguardo, ancorché apparentemente ispirati ad una visuale di programmazione, nei fatti concreti non andavano oltre la dimensione puramente congiunturale, costituendo semmai un polmone occasionale e non molto di più.
Soltanto con l’approvazione, nell’agosto del 1978, del Piano decennale dell’edilizia, la legge n.457, relativa alle «norme per l’edilizia residenziale», si tenne conto dell’esigenza di definire obiettivi a lunga scadenza negli interventi pubblici, sottraendo così la legislazione sull’edilizia economicopopolare alla logica del provvedimento frammentario, in mero omaggio all’urgenza di rispondere alle crisi produttive dell’industria delle costruzioni. Contava peraltro il fatto che gli anni Settanta misuravano, e capitalizzavano, l’onda lunga delle contestazioni del decennio precedente, così come la vivace stagione di mobilitazione sindacale, traducendo l’una e l’altra in una forza di pressione sulle istituzioni.
Da quel momento, in buona sostanza, dallo sviluppo disordinato delle città, basato anche sui processi migratori interni al Paese avvenuti nei due decenni precedenti, e all’assestamento industriale, sarebbe derivata una riconfigurazione in toto della politica delle città, con un diverso approccio urbanistico e una ben più accentuata attenzione alle dinamiche sociali di un’Italia che si era lasciata alle spalle parte della miseria del passato ma non riusciva a governare il mutamento del presente.
Claudio Vercelli