Il 1969 fu l'anno in cui la Feneal tenne il suo quinto Congresso nazionale, questa volta a Torino. Il clima nel Paese era in chiaroscuro.
Di fatto, dopo la firma dell'accordo con le aziende a partecipazione statale, raccolte nell'allora Intersind e nell'Asap, con l'eliminazione delle zone salariali e per il conglobamento della contingenza, si superò quasi definitivamente la divisione tra i lavoratori italiani sulla base della regionalità o delle aree territoriali.
Era un passo in avanti decisivo, che spezzava la discrezionalità con la quale, invece, fino ad allora erano stati trattati gli operai.
Il 1969 fu l’anno in cui la Feneal tenne il suo quinto Congresso nazionale, questa volta a Torino. Il clima nel Paese era in chiaroscuro.
Di fatto, dopo la firma dell’accordo con le aziende a partecipazione statale, raccolte nell’allora Intersind e nell’Asap, con l’eliminazione delle zone salariali e per il conglobamento della contingenza, si superò quasi definitivamente la divisione tra i lavoratori italiani sulla base della regionalità o delle aree territoriali.
Era un passo in avanti decisivo, che spezzava la discrezionalità con la quale, invece, fino ad allora erano stati trattati gli operai.
Il 1969 fu l’anno in cui la Feneal tenne il suo quinto Congresso nazionale, questa volta a Torino. Il clima nel Paese era in chiaroscuro.
Di fatto, dopo la firma dell’accordo con le aziende a partecipazione statale, raccolte nell’allora Intersind e nell’Asap, con l’eliminazione delle zone salariali e per il conglobamento della contingenza, si superò quasi definitivamente la divisione tra i lavoratori italiani sulla base della regionalità o delle aree territoriali.
Era un passo in avanti decisivo, che spezzava la discrezionalità con la quale, invece, fino ad allora erano stati trattati gli operai.
Allo stesso tempo, la nuova legge di riforma del sistema pensionistico aveva visto l’ingresso del sindacato finalmente in un ruolo da protagonista all’interno degli organismi di rappresentanza e gestione degli enti previdenziali. Si trattava di un settore, quello della previdenza, sempre più rilevante per la qualità della vita di milioni di italiani e dal quale le organizzazioni dei lavoratori, fino ad allora, erano rimaste perlopiù escluse.
Non di meno, in quegli stessi mesi, dopo una serie di scioperi che avevano interessato il sud d’Italia, per l’eliminazione del “caporalato” e l’istituzione di una commissione sindacale per il controllo del collocamento della manodopera, ad Avola, in provincia di Siracusa, le forze dell’ordine spararono contro i manifestanti, uccidendone due e ferendone una cinquantina. I tragici eventi di quei giorni fecero da detonatore ad una serie di imponenti cortei, che vedevano coinvolti lavoratori e studenti tra di loro accomunati ma anche pervasi da un clima di forti tensioni.
Peraltro in tutto il Paese l’intera società civile sembrava essersi messa in moto. Non a caso si parlò di «autunno caldo», un’espressione con la quale si indicava da un lato la grandissima partecipazione di donne e uomini, giovani e anziani, occupati e disoccupati al movimento che stava prendendo forma; dall’altro, evidenziava la posta in gioco e l’intensità con la quale la presenza dei manifestanti andava esprimendosi. Per il sindacato si trattava di gestire percorsi ed effetti di questa grande trasformazione.
La lotta in corso aveva molteplici sfaccettature ma rimandava sempre e comunque al riconoscimento e alla realizzazione di diritti che la Costituzione repubblicana, in quanto tale, prevedeva ma che, nei fatti, non avevano trovato fino ad allora alcuna attuazione. A partire dai diritti sociali, intesi come diritti di cittadinanza, basati essenzialmente sulla redistribuzione della ricchezza prodotta attraverso il «Welfare State», il sistema delle garanzie sociali che stava, ancora faticosamente, affermandosi. Data a quei mesi, peraltro, l’avvio del progetto che avrebbe poi trovato la sua realizzazione con il varo della legge 300 del 20 maggio 1970, relativa alle «norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento», meglio conosciuta, con linguaggio meno burocratico, come «Statuto dei diritti dei lavoratori». Di grande importanza fu il ruolo allora svolto da Giacomo Brodolini, prima sindacalista socialista e poi Ministro del Lavoro e della previdenza sociale.
In tale veste, raccogliendo il patrimonio di richieste che arrivavano dal movimento operaio, ma che fino ad allora avevano trovato scarsa o nessuna eco, si adoperò nel 1969 per riformare il circuito pensionistico, passato dal sistema a capitalizzazione a quello a ripartizione, quest’ultimo basato sul gettito delle imposte e non solo sugli accantonamenti specificamente fatti per finalità previdenziali. Lo stesso Brodolini fu poi attivo sul versante dell’abrogazione delle gabbie salariali. Anche in tale veste, quindi, promosse l’istituzione di una commissione nazionale per la redazione della bozza di Statuto, presieduta dal giuslavorista Gino Giugni. Su un binario parallelo correva poi il progetto di legge, più volte ripreso, ancorché fortemente contrastato in ambito cattolico, per l’introduzione dell’istituto del divorzio nel diritto civile italiano. Anche in questo caso il Partito socialista, nella persona del deputato Loris Fortuna, si era posto all’avanguardia delle rivendicazioni.
L’insieme di questi ed altri eventi, destinati ad essere recepiti nel corso del tempo dalla normativa italiana, indicavano il cambio di marcia che aveva coinvolto il Paese. Un mutamento non solo di ordine politico ma anche culturale e civile. La Uil, la Cgil e la Cisl, pur preservando le tante differenze che ne caratterizzavano le rispettive storie, erano ora impegnate su un medesimo fronte, dove l’unità d’azione era intesa come un bene prezioso se non esclusivo. In buona sostanza, le tre confederazioni sindacali riunivano gli aspetti più significativi di quell’ispirazione riformista che, in ambito laico e socialista, comunista, cattolico democratico, repubblicano e socialdemocratico, era andata definitivamente affermandosi. Le grandi federazioni di categoria si preparavano quindi ad una nuova stagione di lotte e rivendicazioni.
In prospettiva dei rinnovi contrattuali venivano quindi elaborate le piattaforme con le richieste. E tuttavia, se qualcosa si era verificato, in quelle circostanze, era il fatto che la dimensione economica costituiva oramai soltanto uno degli aspetti dell’agire sindacale, il quale era stato investito definitivamente della questione di fondo della cittadinanza sociale. Si trattava di riformare non solo il lavoro e le imprese in cui si lavorava ma il modo stesso di intendere il rapporto tra prestazione lavorativa, diritto ad un reddito dignitoso, qualità della vita e scelte politiche dell’intera nazione. Era evidente che il sindacato fosse ora investito anche di un ruolo politico, benché ciò non implicasse il sostituirsi ai partiti. Dunque, è in tale situazione, nel medesimo tempo promettente ma anche non priva di apprensioni e timori, che la Feneal svolse, nel marzo del 1969, il suo Congresso torinese. Ad esso presenziò lo stesso Ministro Brodolini (che di lì a non molto sarebbe venuto a mancare, stroncato da un male incurabile). Numerosissime erano le delegazioni sindacali straniere con alla testa il presidente della Federazione internazionale dei lavoratori delle costruzioni Mills. All’assise erano presenti i rappresentanti dei sindacati edili un po’ di tutto il Continente. Il Congresso raccolse da subito le innumerevoli voci che arrivavano non solo dal mondo delle costruzioni e che chiedevano insistentemente riforme. Ad esse si legavano il bisogno di dare uno sbocco incisivo alle lotte in corso nel Paese, la delusione, ancora non superata per il fallimento del progetto del centrosinistra, il problema del rinnovamento della rappresentanza politica, la necessità di sostenere le ragioni dell’unità confederale. Ad aprire i lavori fu il Segretario generale della Feneal Luciano Rufino il quale, evitando concioni e retoriche di circostanza, da subito segnalò come dinanzi alla straordinaria mobilitazione collettiva, e allo sviluppo del comparto delle costruzioni, in Italia non corrispondesse nessuna assunzione di responsabilità da parte dei decisori. La crescita avveniva ancora una volta in maniera al medesimo tempo tumultuosa e disordinata. Si costruiva tanto, a volte troppo, senza tuttavia raccordarsi alle esigenze del mercato come, soprattutto, di quei ceti popolari per i quali l’abitazione continuava a costituire un problema invalicabile, quasi una sorta di chimera. Era la conferma, sottolineava Rufino, che il settore edilizio dimostrava una considerevole refrattarietà a qualsiasi forma di regolamentazione. Da ciò derivava non solo l’eccesso di investimenti in edilizia residenziale, nella sua sovrabbondanza per nulla coincidente con la domanda sociale, ma anche di come la controparte datoriale intendesse continuare a non ragionare nel merito, persistendo nell’idea che l’edilizia fosse prima di tutto un settore speculativo. Tutto ciò, a parere della Feneal, giustificava la necessità di dare vita ad un contesto normativo e legislativo più avanzato, che facesse giustizia – una volta per sempre – delle infinite incongruenze del comparto. La caotica situazione esistente, sottolineava il Segretario generale, non era peraltro figlia del caso ma del calcolo.
Fatto che induceva a sottolineare la natura politica del problema, poiché qualsiasi cambiamento sarebbe stato possibile solo a patto di colpire il nodo degli interessi che legavano gli industriali del mattone gli uni agli altri. Tra le cause dei profondi disagi nel settore edile vi era poi la perdurante obsolescenza delle strutture tecnologiche di molte aziende. Era vero che i grandi gruppi avevano riformulato completamente i criteri (e quindi i mezzi) del ciclo produttivo, ottenendo a volte anche clamorosi incrementi di produttività. Ma rimaneva il fatto che il cronico spezzettamento del sistema nelle innumerevoli imprese di piccole e medie dimensioni, affaticasse il lavoro oltre ogni limite. Ancora una volta tornava in luce il problema di come una moderna industria delle costruzioni dovesse acquisire dimensioni di scala in grado di ottimizzare i processi di lavorazione e di diminuire oneri e costi anacronistici, compensati altrimenti solo con lo sfruttamento della manodopera. Si trattava quindi di mettere mano, a partire dallo stesso mondo politico, concorrendo a creare le condizioni in tal senso, ad una profonda razionalizzazione e specializzazione dell’attività produttiva del settore.
Il Congresso della Feneal, lontano dai massimalisti e dalle esasperazioni che stavano invece attraversando disordinatamente una parte del mondo del lavoro e della sua rappresentanza, si poneva quindi obiettivi praticabili sul versante di una nuova, possibile stagione di riforme. Il punto di incontro con la Fillea e con la Filca era costituito dal problema della presenza organizzata del sindacato nella società e nei luoghi di lavoro. In altre parole, in che cosa consistesse l’azione di rappresentanza sistematica di una comunità di lavoratori. Per la Feneal era necessario dare fiato e corpo ad una propria funzione autonoma nella dialettica politico- sociale del Paese. Il sindacato doveva non solo rivendicare ma agire le vie della costruzione di una diversa idea di società, essendo il depositario dell’esperienza e del valore collettivo del lavoro.
Claudio Vercelli