Negli anni Sessanta, tempo delle speranze generate dai governi di centro-sinistra e poi del grande tumulto collettivo prodotto dalla contestazione studentesca e operaia, ma anche e soprattutto di un boom economico senza eguali nella storia del nostro Paese, come si presentava il panorama dell’edilizia e, di riflesso, la situazione del sindacato edile? Abbiamo già visto quale fosse stata l’evoluzione della Feneal- Uil nel corso del decennio precedente, dalla sua nascita al suo affermarsi come soggetto della contrattazione.
Gli anni che si erano ora inaugurati presentavano un mercato edilizio – e di riflesso un mondo del lavoro – dai tratti marcatamente specifici.
Negli anni Sessanta, tempo delle speranze generate dai governi di centro-sinistra e poi del grande tumulto collettivo prodotto dalla contestazione studentesca e operaia, ma anche e soprattutto di un boom economico senza eguali nella storia del nostro Paese, come si presentava il panorama dell’edilizia e, di riflesso, la situazione del sindacato edile? Abbiamo già visto quale fosse stata l’evoluzione della Feneal- Uil nel corso del decennio precedente, dalla sua nascita al suo affermarsi come soggetto della contrattazione.
Gli anni che si erano ora inaugurati presentavano un mercato edilizio – e di riflesso un mondo del lavoro – dai tratti marcatamente specifici.
L’industria edile in Italia è sempre stata caratterizzata dall’abbondanza di manodopera a buon mercato, generalmente poco o nulla qualificata.
Non infrequentemente, per gli emigranti provenienti dalle campagne del Mezzogiorno d’Italia il lavoro di cantiere era l’esperienza temporanea che precedeva l’ingresso nelle officine metalmeccaniche.
Così facendo, però, il lavoro edile era inteso da molti come un’attività secondaria, priva di stabilità e, soprattutto, legata alla sola fatica fisica, senza che gli uni (i lavoratori) e gli altri (gli imprenditori) si sentissero in dovere di investire per una sua specializzazione.
Mentre i primi non si davano cura di migliorare la propria preparazione, pensando che in fondo il “vero” posto di lavoro fosse quello nella grande impresa, agognato come l’autentica meta professionale, per i secondi faceva comodo continuare a sfruttare una manovalanza “senza arte né parte”, propensa a vivere alla giornata e nulla più.
Il settore edile si segnalava quindi per l’altissima presenza di lavoro ma anche e soprattutto per gli scarsi investimenti negli impianti e nei macchinari.
Inoltre, buona parte delle imprese edili facevano uso di materie prime povere (ossia di basso valore in rapporto al peso, quindi soggette ad elevati costi di trasporto) e di provenienza locale, come la pietra, i mattoni, la calce e il cemento.
Solo per il ferro usato nel cemento armato si faceva ricorso a stock di origine straniera, perlopiù lavorati nel bresciano. La scarsa specializzazione e il basso valore dei prodotti utilizzati impedivano lo sviluppo tecnologico e la concentrazione organizzativa in grandi imprese.
Da ciò derivava l’apparente paradosso che la concorrenza estera fosse molto ridotta, avendo a che fare con un mercato molto ampio ma estremamente polverizzato e chiuso in se stesso. Infatti la nota dominante nell’edilizia dei vent’anni che vanno dalla ricostruzione alla contestazione è quella dettata dall’estrema diffusione di piccole e piccolissime imprese.
Se nel 1951 si contavano 34 mila imprese registrate, per circa mezzo milione di addetti, dove il 54% delle aziende aveva meno di 6 membri nel personale, alla fine degli anni Sessanta queste erano passate a 133 mila, per un totale di circa un milione di lavoratori con, però, una incidenza del 72% delle microimprese.
La modernizzazione del settore edilizio (legata soprattutto a tre fattori, che dagli anni Cinquanta avevano iniziato a prendere piede: l’uso crescente del cemento armato, lo sviluppo dei mezzi meccanici e la loro diffusione nei cantieri e l’aumento di produttività per addetto) non aveva tuttavia invertito la tendenza al frazionamento, incentivata anche dalla volontà di molti datori di lavoro di sfuggire ai controlli del fisco, del sindacato e di tutte quelle autorità che erano chiamate a fare rispettare la legge.
Al notevolissimo numero di piccole e piccolissime imprese si contrapponeva la presenza, molto limitata, di grandi aziende edili, tecnologicamente all’avanguardia, ben collegate con il mondo finanziario e politico, in grado di ottenere rilevanti commesse o di vincere importanti appalti, in Italia come all’estero.
Ma tra la grande quantità di piccole, diffusissime imprese e le poche grandi aziende c’era come un fossato insuperabile. L’edilizia si definiva un settore produttivo cronicamente in difficoltà, dove i costi di produzione, contenuti soprattutto sul versante del lavoro, con basse retribuzioni, risultavano invece per tutto il resto molto alti.
E questo incideva soprattutto sugli acquirenti dei prodotti finiti, a partire dai compratori di case. Il motore di questa lievitazione dei prezzi era legato alla rendita fondiaria urbana, ovvero alla crescita del valore delle aree edificabili, causato dal dopoguerra in poi, dall’espansione delle grandi città e dalla ristrutturazione dei centri storici.
Capitava spesso che il prezzo dell’area fosse uguale o comunque simile a quello dell’edificio che vi doveva essere costruito sopra. Per una parte della borghesia italiana, l’arricchimento derivante dalla speculazione sui prezzi degli appezzamenti di terra risultava troppo redditizio per farne a meno.
La mancanza di una legislazione urbanistica e la selva di interessi privati che da sempre ruotano intorno alla politica della casa congiuravano inoltre contro il riordino, in chiave di modernizzazione, dell’intero settore.
Il problema, evidentemente, non era solo tecnico ma anche e soprattutto politico: se in molti paesi europei si stava verificando un massiccio intervento pubblico nell’edilizia, subordinando parte dell’iniziativa privata ai fini sociali, in Italia fino alla fine degli anni Sessanta dominò un “lasciare fare” che rese molto ondivago e incerto l’andamento dell’edilizia, vincolandolo agli appetiti dei grandi costruttori e alla speculazione finanziaria del momento.
Di fatto la politica edilizia che fu praticata dai grandi partiti di massa, e tradotta in Parlamento in una serie di leggi e provvedimenti, verteva soprattutto intorno al blocco dei fitti (scelta operata a tutela dei ceti più deboli ma della quale poi si avvantaggiarono anche quelle classi sociali che non ne avevano diritto), la sollecitazione dell’attività privata ma in un regime di sostanziale carenza di controlli (vigendo la legge urbanistica del 1942, voluta dal fascismo) e quindi di potenziali arbitri e una presenza pubblica che, negli anni Sessanta, non superò mai il 15% dell’insieme degli investimenti (tra interventi dell’Istituto nazionale delle assicurazioni, gli Istituti autonomi per le case popolari e l’insieme degli organismi ministeriali del settore).
Nel travolgente sviluppo del settore edilizio tra gli anni Cinquanta e Sessanta la parte del leone fu quindi fatta dalla costruzione di case private (l’85% del totale): dalle 73.400 case terminate nel 1950 si passò alle 273.500 della fine del decennio alle quasi 500 mila del 1964. Le città crebbero tumultuosamente, spesso in spregio non solo alle regole, che a volte mancavano pure, ma anche al buon senso.
Si parlò, nel caso della capitale, del «sacco di Roma», compiuto dalla speculazione edilizia con l’appoggio della Democrazia cristiana e l’assenso del Vaticano: mentre nel centro storico i vecchi quartieri popolari venivano sostituiti da edifici e residenze di lusso, la periferia conosceva un abnorme sviluppo, senza che vi fosse una qualche pianificazione urbanistica. La crescita della motorizzazione privata, a fronte della insufficiente rete stradale urbana, faceva da contrappunto all’incremento e alla diffusione del sistema autostradale per i collegamenti nella penisola. Segno, questo, che laddove l’industria metalmeccanica (ma anche quella del cemento come quella dei lavori pubblici) faceva valere i suoi interessi, le risorse venivano immediatamente reperite.
Il sindacato, e con esso la Feneal Uil, doveva quindi confrontarsi con le concrete difficoltà di mobilitare i lavoratori. Se negli anni Cinquanta, a fronte del boom edilizio, ci si era impegnati per uscire dalle condizioni di sottoretribuzione (il salario medio del 1950 era inferiore a quello del 1938), con il decennio successivo diventava fondamentale lottare per il controllo dei processi che regolavano l’organizzazione del lavoro nei cantieri. Poiché è proprio a partire dall’inizio del nuovo decennio che si manifestarono i primi segni di una crisi che investì il settore, con l’espulsione di numerosa manodopera, la diffusione ancora più intesa del sistema dei subappalti e l’ennesimo impoverimento dei contenuti professionali della prestazione d’opera.
Dopo il contratto del 1960 al momento del suo rinnovo, due anni dopo, la Feneal incentrò la sua azione su quattro passaggi: una nuova regolamentazione del premio di produzione, fissata su base locale e sulla scorta di parametri che tenessero in considerazione gli incrementi di produttività; la richiesta di creare una rete di scuole, a base regionale, per meglio garantire la formazione e, quindi, la mobilità dei lavoratori; l’estensione a tutte le province delle Casse edili e l’ipotesi di un salario minimo garantito; lo sviluppo di una politica urbanistica che ponesse fine al fenomeno del «mattone selvaggio».
Nel luglio del 1961 venne quindi firmato un nuovo contratto che entrò in vigore del 1962. Gli aspetti più rilevanti – oltre al fatto che era stato sottoscritto con cinque mesi di anticipo sulla scadenza naturale di quello in vigore – erano l’obbligatorietà ovunque delle Casse edili; la fissazione a 48 ore dell’orario di lavoro in tutte le province; un miglioramento delle qualifiche operaie; una più stretta regolamentazione del lavoro a cottimo (vero strumento di sfruttamento); l’aumento delle tabelle salariali del 9% per i manovali e dell’11% per gli specializzati; l’integrazione salariale al 66% delle giornate di lavoro perse a causa del maltempo.
Nell’agosto del 1961, inoltre, le differenze retributive tra nord e sud del Paese, le cosiddette «gabbie salariali», si riducevano dal 40 al 20%, consentendo ai lavoratori meridionali di incrementare di una media del 10% le loro retribuzioni. Più in generale, il fenomeno che andava verificandosi era che sempre più spesso i contratti venivano integrando temi legati all’evoluzione della società italiana: gli orari di lavoro, le mansioni e le qualifiche, la formazione professionale, l’edilizia popolare non avevano a che fare solo con la condizione economica dei lavoratori ma con la qualità dello sviluppo collettivo.
Il vero scarto si registrava invece tra la vivacità della contrattazione e la lentezza dell’azione legislativa. Il Parlamento tardava a recepire in leggi gli effetti del mutamento in corso, impedendo così che si costituisse un raccordo tra spinte sociali e riforme.
L’Italia era oramai una potenza industriale ma i disequilibri erano molti, troppi. Il sindacato non poteva non porsi come soggetto di una nuova stagione basata sul principio dell’equità sociale.
Claudio Vercelli