Nell’agosto del 1969 moriva Giacomo Brodolini, già sindacalista di area socialista e poi, con il 1968, titolare del dicastero del Lavoro e della previdenza sociale.
Come ministro, introdusse fondamentali riforme nel mondo del lavoro tra le quali il superamento delle gabbie salariali, la ristrutturazione del sistema previdenziale, rendendolo maggiormente universalistico e, soprattutto, l’elaborazione dello Statuto dei lavoratori.
Peraltro il suo stesso partito conosceva in quei tempi momenti difficili se non travagliati.
Dopo la sofferta unificazione tra socialisti e socialdemocratici le divisioni avevano ripreso il sopravvento, portando quindi ad una nuova separazione e alla ricostituzione di due formazione politiche distinte, quella socialista e quella socialdemocratica.
Nell’agosto del 1969 moriva Giacomo Brodolini, già sindacalista di area socialista e poi, con il 1968, titolare del dicastero del Lavoro e della previdenza sociale.
Come ministro, introdusse fondamentali riforme nel mondo del lavoro tra le quali il superamento delle gabbie salariali, la ristrutturazione del sistema previdenziale, rendendolo maggiormente universalistico e, soprattutto, l’elaborazione dello Statuto dei lavoratori.
Peraltro il suo stesso partito conosceva in quei tempi momenti difficili se non travagliati.
Dopo la sofferta unificazione tra socialisti e socialdemocratici le divisioni avevano ripreso il sopravvento, portando quindi ad una nuova separazione e alla ricostituzione di due formazione politiche distinte, quella socialista e quella socialdemocratica.
Benché la figura di Brodolini, padre della moderna giurisprudenza lavorista, sarebbe stata presto oscurata dall’evoluzione degli eventi, il segno che egli lasciò alla cultura del lavoro in Italia si sarebbe riflesso fino ai giorni nostri. La Uil, dinanzi al declino dell’unità socialista e alle alterne vicende politiche italiane, dove peraltro andava sempre più spesso rivelandosi una «strategia della tensione», così come sarebbe poi stata chiamata, che con le bombe esplose il 12 dicembre 1969 all’agenzia della Banca dell’agricoltura di piazza Fontana a Milano manifestava i suoi tragici esordi, dovette confrontarsi con la tumultuosità delle piazze ma anche con la fragilità del suo schieramento politico di riferimento.
Quanto questo si riflettesse, direttamente o indirettamente, sugli assetti e sulla capacità operativa della Feneal non è facile, ai giorni nostri, a così tanta distanza di tempo, dirlo con certezza. Di certo, dinanzi a quell’unità sindacale con la Cgil e la Cisl che era venuta affermandosi, la Uil misurava una debolezza sua propria, che le derivava dalle vicissitudini dei suoi diretti interlocutori politici. L’area laica, socialista e repubblicana benché raccogliesse tre filoni essenziali delle culture politiche nazionali, soffriva di uno stato di minorità, del quale i risultati elettorali, spesso modesti e quindi deludenti, ne erano riscontro. Sul piano della categoria, tuttavia, le cose sembravano muoversi diversamente, senz’altro con maggiore scioltezza.
L’impegno profuso sistematicamente nelle lotte per i rinnovi contrattuali e per l’affermazione di un «nuovo modello di sviluppo», che derivasse proprio dall’ispirazione dei lavoratori e non fosse la pedissequa ripetizione dell’industrialismo professato dal grande capitale italiano, era in cima ad ogni iniziativa. L’unitarietà con la Fillea e la Filca, peraltro, si misurava proprio sulla scorta dell’azione quotidiana, in base al pragmatismo operativo, più ancora che nelle riunioni o nei proclami.
In altre parole, le cose le si faceva attraverso la lotta non solo per il miglioramento delle condizioni di lavoro ma anche per una durevole trasformazione nei rapporti tra la parte datoriale e quella lavorativa. Si trattava di lottare per la democrazia sociale.
Metalmeccanici, chimici, braccianti e quant’altri di fatto costituivano un fronte compatto, capace di condizionare l’evoluzione di significativi aspetti dell’economia ma, per alcuni aspetti, anche della politica. Sul versante edile, l’unità d’azione tra i sindacati si traduceva nella richiesta di un cambiamento delle condizioni di lavoro così come dell’introduzione di una diversa politica edilizia per il Paese.
La Feneal, insieme agli altri sindacati di categoria, continuava a denunciare come l’espansione nel settore delle costruzioni continuasse ad essere caratterizzato dalla prevalenza delle scelte e degli indirizzi operativi imposti dai grandi gruppi privati, dalle società immobiliari, dall’intervento sistematico del capitale speculativo. Perseverava imperterrito e proseguiva sfacciatamente quel fenomeno perverso che implica un afflusso distorto, ovvero elefantiaco, di capitali verso l’edilizia residenziale, con l’offerta di alloggi ad un regime di mercato sempre più alto, ossia con prezzi irraggiungibili per la grande maggioranza delle famiglie dei lavoratori italiani.
Il paradosso di una grande quantità di vani, di appartamenti e di stabili concretamente fruibili da subito ma a costi proibitivi si accompagnava alla mancanza di abitazioni per tanti potenziali acquirenti o affittuari.
Inoltre, la società italiana dei primi anni Settanta presentava un panorama urbanistico schizofrenico, dove la tumultuosa crescita dei due decenni precedenti, soprattutto in ambito urbano, era avvenuta in difetto se non in spregio a qualsiasi normativa di regolamentazione.
Come abbiamo già avuto modo di osservare, e ripetutamente, i tentativi di porre dei vincoli di legge continuavano ad essere aggirati nei fatti. Una serie impressionante di guasti urbanistici, provocati dal sorgere incontrollato di nuclei edilizi a forte densità abitativa, privi di infrastrutture e servizi elementari come i trasporti, le scuole, le aree verdi, i centri sanitari e i servizi socio-assistenziali, diveniva così l’amaro suggello del fallimento di tutti i “piani” di regolamentazione ipotizzati, licenziati dal Parlamento e puntualmente inattuati. Va detto, a margine di questo aspetto, che la carenza o la mancanza totale di strutture civili e di abitazioni accessibili era di per sé un’ulteriore causa del depauperamento dei lavoratori.
Il fenomeno dei cosiddetti «quartieri dormitorio» era divenuto un aspetto comune nel panorama urbano delle grandi città industriali, soprattutto nel nord d’Italia. A ciò si accompagnavano disagi di ogni genere, in parte misurabili da subito ed in parte destinati a manifestarsi successivamente, in forma virulenta e antisociale. Con gli anni Settanta, peraltro, si intravvedono i primi segni di quella gigantesca bolla speculativa che avrebbe fatto lievitare il prezzo del mattone fino a livelli insostenibili, un processo che è arrivato ai giorni nostri. L’incremento del prezzo del costruito implicava la sua inaccessibilità per molti ma anche un incentivo all’inflazione, così come la si sarebbe misurata negli anni successivi, quando avrebbe raggiunto, dopo lo shock petrolifero del 1973, livelli fino ad allora impensati. La Feneal, la Fillea e la Filca avevano già da tempo licenziato una piattaforma unitaria, orientata a dare corpo ad una nuova politica edilizia. I punti programmatici ruotavano intorno ad alcune questioni considerate imprescindibili.
Il primo di essi chiedeva, a fronte del blocco, quanto meno temporaneo, dei fitti, anche la regolamentazione e il controllo delle locazioni, in modo da sottrarre, in una situazione di mercato caratterizzata da una penuria di alloggi a basso costo, i redditi dei lavoratori dall’insostenibilità di costi per l’abitazione che superavano il 50% delle loro remunerazioni.
Il secondo passaggio riguardava un nuovo programma decennale di investimenti pubblici nell’edilizia residenziale, con la costruzione di almeno 50mila vani all’anno, in parte con il contributo parziale dello Stato e il concorso dei privati, in parte con il solo intervento pubblico. Tali costruzioni, nelle intenzioni dei proponenti, avrebbero dovuto essere assegnate da subito alle famiglie di lavoratori maggiormente bisognose, prevedendo, come prevalente destinazione d’uso, l’assegnazione in locazione.
Il terzo elemento della proposta era relativo alla rimozione degli impedimenti che avevano sino ad allora ostacolato, se non impedito, l’attuazione del programma Gescal. Quest’ultimo, va ricordato, era il prodotto della legge del 14 febbraio 1963, la numero 60, relativa al «programma decennale di costruzione di alloggi per lavoratori». In ragione di questa legge erano state introdotte nuove strutture organizzative, come la stessa Gestione case per lavoratori, alle quali fu affidato un duplice compito: quello di provvedere alla liquidazione dell’ingente patrimonio immobiliare fino ad allora posseduto dall’Ina-Case e, nel medesimo tempo, di continuare l’azione di stimolo che a partire dall’inizio degli anni Cinquanta il cosiddetto «piano Fanfani » aveva svolto per l’edificazione di abitazioni su tutto il territorio nazionale. Le organizzazioni sindacali chiedevano ora la disponibilità di aree a basso costo urbanizzate e dotate di tutti i servizi e le attrezzature occorrenti alla vita in comune, prevedendo – inoltre – il contestuale inizio delle opere di urbanizzazione e la tempestiva realizzazione da parte dei Comuni.
Il quarto punto concerneva la razionalizzazione della selva di enti incaricati, a vario titolo, dell’attuazione dei programmi costruttivi di iniziativa pubblica. Si evidenziava la necessità di procedere ad una loro unificazione, affidando al solo ministero dei Lavori pubblici la direzione unitaria del settore e delle responsabilità in materia di politica edilizia a livello nazionale. A ciò si accostava la richiesta di realizzare il massimo decentramento provinciale e regionale di tutte le attività connesse all’attuazione di programmi costruttivi, incentivando una partecipazione democratica, con la presenza dei rappresentanti dei lavoratori e della cittadinanza negli organismi incaricati di realizzarli. Il controllo del territorio, si ragionava, passava inevitabilmente per un concorso attivo, sia sul piano progettuale che gestionale, dei processi di urbanizzazione.
L’ultima richiesta era infine rivolta all’attuazione, con forza e determinazione, degli strumenti urbanistici in vigore all’epoca, quali la legge ponte e la legge 167, per i quali si chiedevano emendamenti e integrazioni sul merito del finanziamento ai comuni in ordine alle sfere di urbanizzazione, insieme a nuovi criteri circa le indennità di esproprio. La dimensione burocratica dell’intero processo previsto per la realizzazione degli obiettivi che erano contemplati dalle norme urbanistiche era già allora tale da renderle di fatto inapplicabili.
Una sorta di meccanismo di disattivazione dall’intero funzionava in modo tale da fare perdere la rotta a qualsiasi iniziativa che non risultasse in sintonia con gli interessi dei gruppi corporativi di pressione presenti nel settore. Per i sindacati, allo scopo di superare le procedure esistenti in merito ai finanziamenti, rivelatesi del tutto insufficienti se non inefficaci, occorreva pervenire allo sblocco della situazione di paralisi, trovando un nuovo strumento che prevedesse la partecipazione dello Stato e degli enti locali.
Al di là delle proposte di principio, rimaneva il fatto che per Feneal, Filel a e Filca il livello sul quale fare pressione per ottenere qualche risultato, contrastando la lobby potentissima dei costruttori e raccogliendo la sfida di una democrazia diffusa, che proveniva ora dalle piazze come dai luoghi di studio e di lavoro, erano gli istituti della rappresentanza locale, a partire dai Comuni, passando per le Province e arrivando alle Regioni, di recentissima costituzione. Il Parlamento, che pure rimaneva l’organismo legislativo per eccellenza, risultava adesso troppo distante per potere raccogliere tutte le istanze che la lunga stagione dei movimenti di base, così come la grande fase di mobilitazione del lavoro, andavano esprimendo. Il nesso tra diritto all’abitazione e identità del lavoro era così inteso come la nuova frontiera su cui costruire una cittadinanza sociale, capace di includere quanti, fino ad allora, ne erano invece rimasti, per più ragioni, ai margini.
Claudio Vercelli