Correva l'anno 1951 e l'Italia era da poco tempo uscita dalla guerra. Era un paese molto diverso da quello al quale siamo abituati a pensare oggi, adesso che è passato più di mezzo secolo dagli eventi che andiamo a raccontare. L'anno precedente aveva visto la nascita dell'Unione italiana del lavoro e, con essa, delle Camere del lavoro indipendenti.
Che cosa questo volesse dire lo si può capire solo tornando con la mente a quell'epoca. Era il periodo della più intensa guerra fredda, la contrapposizione tra l'Occidente libero e l'Est sotto il dominio di Mosca.
Stalin era ancora vivo e vegeto, il confronto tra comunisti e anticomunisti duro, le contrapposizione nette. Insomma, tirava una cattiva aria: l'ipotesi di un nuovo, lacerante conflitto, questa volta atomico, cioè combattuto con le armi di distruzione di massa, era qualcosa di più di una semplice minaccia.
Correva l’anno 1951 e l’Italia era da poco tempo uscita dalla guerra. Era un paese molto diverso da quello al quale siamo abituati a pensare oggi, adesso che è passato più di mezzo secolo dagli eventi che andiamo a raccontare. L’anno precedente aveva visto la nascita dell’Unione italiana del lavoro e, con essa, delle Camere del lavoro indipendenti.
Che cosa questo volesse dire lo si può capire solo tornando con la mente a quell’epoca. Era il periodo della più intensa guerra fredda, la contrapposizione tra l’Occidente libero e l’Est sotto il dominio di Mosca.
Stalin era ancora vivo e vegeto, il confronto tra comunisti e anticomunisti duro, le contrapposizione nette. Insomma, tirava una cattiva aria: l’ipotesi di un nuovo, lacerante conflitto, questa volta atomico, cioè combattuto con le armi di distruzione di massa, era qualcosa di più di una semplice minaccia.
Correva l’anno 1951 e l’Italia era da poco tempo uscita dalla guerra. Era un paese molto diverso da quello al quale siamo abituati a pensare oggi, adesso che è passato più di mezzo secolo dagli eventi che andiamo a raccontare.
L’anno precedente aveva visto la nascita dell’Unione italiana del lavoro e, con essa, delle Camere del lavoro indipendenti.
Che cosa questo volesse dire lo si può capire solo tornando con la mente a quell’epoca.
Era il periodo della più intensa guerra fredda, la contrapposizione tra l’Occidente libero e l’Est sotto il dominio di Mosca.
Stalin era ancora vivo e vegeto, il confronto tra comunisti e anticomunisti duro, le contrapposizione nette.
Insomma, tirava una cattiva aria: l’ipotesi di un nuovo, lacerante conflitto, questa volta atomico, cioè combattuto con le armi di distruzione di massa, era qualcosa di più di una semplice minaccia.
In Italia si era ancora lontani da quel boom economico che nei due decenni a seguire avrebbe stravolto l’intera società, proiettandola nella modernità. Molti connazionali vivevano ancora nelle campagne, le industrie erano nella quasi totalità dei casi concentrate al nord, le città stavano ancora riprendendosi dai numerosissimi danni subiti da una guerra che, tra il 1943 e il 1945, aveva attraversato l’intera penisola, dalla Sicilia fino alle Alpi.
E poi, ancora non c’era la televisione (sarebbe stata introdotta solo a partire dal 1955).
Si viveva modestamente se non miseramente. Le speranze di una rilancio dell’economia – e dei suoi effetti benefici, ai quali far partecipare tutta la popolazione – erano legate al buon esito del Piano Marshall, il complesso di provvedimenti che gli Stati Uniti avevano promosso dal 1947 per aiutare i paesi europei ad uscire dal terribile tunnel del Secondo conflitto mondiale. Si aveva poco, si viveva di ancor meno.
Eppure qualcosa di nuovo già si iniziava ad intravedere. Sotto l’apparente uniformità e staticità della situazione generale qualche cambiamento, infatti, iniziava a prendere forma.
Il problema più grosso, per chi voleva partecipare alla vita politica (e concorrere a trasformare le cose) era dato dal fatto che al di fuori del secco bipolarismo tra una Democrazia cristiana (il partito cattolico di maggioranza relativa) saldamente ancorato al potere e un Fronte popolare (l’alleanza tra comunisti e socialisti) costretto ad una dura opposizione, ben poco spazio era lasciato a quanti avessero voluto esprimere posizioni indipendenti. Le componenti laiche e socialiste, ispirate ai principi della democrazia, della libertà ma anche della giustizia sociale avevano scarso seguito.
All’interno di una alleanza di governo chiamata per l’appunto “centrismo”, in omaggio alla assoluta prevalenza dei democristiani, il ruolo affidato a quei partiti come i socialdemocratici (nati nel 1947 da una scissione dal Partito socialista italiano) o i repubblicani (a loro volta generatisi dalle ceneri del fragile Partito d’Azione, esistito per pochi anni, tra il 1943 e il 1947) era quello di partner minoritari. Il loro seguito elettorale era peraltro modesto, di scarso peso rispetto ai grandi numeri della Dc di Alcide De Gasperi.
All’opposizione, l’egemonia comunista si esercitava anche sui socialisti di Pietro Nenni (l’indiscusso leader dell’antico partito di Filippo Turati) e sul sindacato, la Cgil di Giuseppe Di Vittorio. Impossibile raggiungere una qualche forma di rapporto con gli uomini di Palmiro Togliatti (il carismatico capo del Pci) che non consistesse nell’accettazione supina di una posizione di assoluta subalternità.
Eppure, come già abbiamo detto, qualcosa stava mutando. Se i comunisti facevano appello ai “proletari” (soprattutto nelle fabbriche) e i democristiani sia ai lavoratori rurali che al ceto medio urbano, la realtà del paese stava iniziando a mettersi progressivamente in movimento. Le figure tradizionali del “bracciante a vita”, così come del “muratore per generazioni” (insomma, di quei lavori tramandati di padre in figlio, che inchiodavano gli uni e gli altri ad una esistenza di stenti e di marginalità), se erano ancora largamente diffuse dovevano però ora confrontarsi con i primi, positivi effetti della ricostruzione postbellica. Non solo nuove fabbriche ma anche e soprattutto un diverso modo di produrre e di consumare stava per irrompere sulla scena del nostro paese. In dieci anni tutto sarebbe cambiato. Ma all’epoca, pochi potevano esserne consapevoli.
Particolare era poi il settore dell’edilizia, che stava per conoscere a sua volta una rivoluzione interna. Uno dei danni più diffusi, provocati dalla guerra, erano infatti state le distruzioni delle abitazioni. I bombardamenti avevano colpito intere città. La domanda di alloggi o, più semplicemente, di vani da abitare, era una delle drammatiche emergenze che avevano accompagnato l’intero dopoguerra.
Al fabbisogno collettivo si stavano dando risposte differenziate, a seconda delle singole realtà locali, comunque quasi sempre al di fuori di una logica di programmazione.
Insomma, ogni comune o ente locale andava un po’ per i fatti suoi. Mancavano gli strumenti legislativi (leggi, norme, regolamenti) ma anche i mezzi e le risorse (soprattutto denari e volontà politica) per programmare il superamento dell’emergenza. Se una parte degli italiani – non pochi, per la verità – era costretta così a vivere indecorosamente una esistenza difficile, in abitazioni precarie, al limite dell’insopportabilità, non meno problematica era la situazione dei lavoratori del settore edile. Si trattava di un ampio “arcipelago” di figure professionali, considerate erroneamente come semplici “lavoratori della fatica”, alla ricerca invece di una collocazione e di un riconoscimento adeguati nel mondo del lavoro.
Che cosa questo volesse dire era però ancora tutto da comprendere: di certo implicava che le organizzazioni sindacali che ne avessero svolto la funzione di rappresentanza non si riducessero ad essere delle “cinghie di trasmissione” di un qualche partito, anzi, dei due Partiti con la maiuscola, quello comunista e il democratico-cristiano. Non di meno, richiedeva che si mettesse mano ad un problema altrettanto impellente e grave, quello del rapporto con il mondo padronale.
Diversamente da quanto era accaduto tra i metalmeccanici, dove il lavorare in grandi fabbriche comportava la possibilità per gli operai di costituire una massa d’urto, per meglio potere appoggiare le proprie rivendicazioni, il lavoro nei cantieri implicava il doversi confrontare con una miriade di situazioni, dove comunque i lavoratori risultavano perlopiù divisi tra di loro e privi di strumenti di contrattazione. In Italia, poi, l’impresa edile era frequentemente costituita dalla figura dei “padroncini”, dai piccoli e piccolissimi imprenditori, più prossimi ad un mondo artigianale in via di estinzione che non alle nuove aziende che andavano invece affermandosi in Europa con la progressiva introduzione di nuove tecnologie.
Tutto era molto arretrato, a ben vedere: nei modi di fare ma, soprattutto, in quelli di pensare. Manco a provarci di parlare dei diritti dei lavoratori, in tale contesto. Questo era insomma il quadro generale della situazione. Intanto, come già abbiamo detto, il 5 marzo 1950, a Roma, duecentocinquanta delegati provenienti da tutta Italia avevano dato vita alla Uil. Tra di loro i nomi di Italo Viglianesi, Raffaele Vanni, Amedeo Sommovigo, Renato Bulleri, destinati a contare negli anni successivi.
Si trattava di una nuova organizzazione sindacale, nata dall’uscita dalla Cgil (controllata da comunisti e socialisti), delle componenti laiche, repubblicane, socialdemocratiche e del socialismo autonomista.
Nella dichiarazione programmatica erano sei i punti salienti:
• l’autonomia dai partiti;
• l’indipendenza dai governi;
• l’aconfessionalismo (cioè la separazione dei temi del lavoro da quelli della religione);
•la volorizzazione dell’autonomia delle federazioni di categoria;
•l’adozione di un criterio democratico e pluralista nella questioni interne;
•la ricerca di punti di convergenza e di azione comune con le altre due organizzazioni confederali (la Cgil e la Cisl) su tutte le questioni di politica sociale ed economica.
Già alla fine del primo anno di vita gli iscritti alla Uil superarono i quattrocentomila.
Ed è da questa premessa di cornice che iniziò l’avventurosa esistenza della Feneal (la Federazione nazionale edili e affini del legno), nel 1951. Ma questo è un capitolo della nostra storia che racconteremo nella prossima puntata.
Claudio Vercelli