La seconda metà degli anni Sessanta fu caratterizzata dallo stallo nel mercato edile e delle costruzioni. Fatto che determinò in breve tempo, dopo gli enormi sviluppi misurati nei dieci anni trascorsi, la prima grande crisi dal dopoguerra.
Nessuno era attrezzato per farvi fronte, pensando che lo sviluppo impetuoso dei tempi trascorsi dovesse comunque continuare. Così non era, e per di più il settore si presentava alla prima grande prova con tutta una serie di macroscopici limiti. Due in particolare pesavano più degli altri: lo sviluppo abnorme del sistema dei subappalti, che rendevano le imprese, nella loro numerosa presenza, nello scarso numero di addetti e nella frantumazione in una vera e propria galassia di operatori, soggetti fragili e di scarsa capacità innovativa.
La seconda metà degli anni Sessanta fu caratterizzata dallo stallo nel mercato edile e delle costruzioni. Fatto che determinò in breve tempo, dopo gli enormi sviluppi misurati nei dieci anni trascorsi, la prima grande crisi dal dopoguerra.
Nessuno era attrezzato per farvi fronte, pensando che lo sviluppo impetuoso dei tempi trascorsi dovesse comunque continuare. Così non era, e per di più il settore si presentava alla prima grande prova con tutta una serie di macroscopici limiti. Due in particolare pesavano più degli altri: lo sviluppo abnorme del sistema dei subappalti, che rendevano le imprese, nella loro numerosa presenza, nello scarso numero di addetti e nella frantumazione in una vera e propria galassia di operatori, soggetti fragili e di scarsa capacità innovativa.
La seconda metà degli anni Sessanta fu caratterizzata dallo stallo nel mercato edile e delle costruzioni. Fatto che determinò in breve tempo, dopo gli enormi sviluppi misurati nei dieci anni trascorsi, la prima grande crisi dal dopoguerra.
Nessuno era attrezzato per farvi fronte, pensando che lo sviluppo impetuoso dei tempi trascorsi dovesse comunque continuare. Così non era, e per di più il settore si presentava alla prima grande prova con tutta una serie di macroscopici limiti. Due in particolare pesavano più degli altri: lo sviluppo abnorme del sistema dei subappalti, che rendevano le imprese, nella loro numerosa presenza, nello scarso numero di addetti e nella frantumazione in una vera e propria galassia di operatori, soggetti fragili e di scarsa capacità innovativa; una forza lavoro considerata ancora di “seconda scelta”, costituendo l’edilizia un settore di transito per la manodopera maggiormente qualificata, propensa ad approdare al metalmeccanico, e di stabilizzazione solo per le componenti più deboli, meno capaci di emanciparsi da una prassi di lavoro basata sul ricorso alla mera forza fisica.
Quindi, contrattualmente anche più deboli, poiché maggiormente subordinate alla ripetizione delle medesime attività e poco recettive alla formazione e alla professionalizzazione. Insomma, benché l’edilizia fosse un settore trainante dell’economia italiana, in essa continuavano a coesistere forme arcaiche di organizzazione del lavoro, soprattutto di taglio artigianale, insieme ad alcune isole di eccellenza, queste ultime legate alle grandi imprese, già allora abituate a ragionare in termini globali.
La rivoluzione fordista e taylorista – che si era definitivamente affermata nelle aziende metalmeccaniche, le quali affrontavano un mercato europeo dei beni di consumo di massa – era di difficile traducibilità in ambito edile, benché le nostre imprese fossero esse stesse chiamate a competere in un’ottica che non si riduceva ai soli confini nazionali. Dalla persistenza di questi nodi strutturali – non da ultimo un ceto datoriale di cementificatori e palazzinari, che spesso ragionava come se ci si trovasse ancora nell’Ottocento ai tempi dei «padroni delle ferriere» – derivò quindi il contraccolpo secco che il settore conobbe tra il 1963 e il 1965. Qualche dato può aiutare a comprendere lo stato della situazione: fatto 100 l’indice della produzione edile nel 1960, tre anni dopo era salito a 142,9 per poi scendere precipitosamente a 127,4 nel 1964 e tracollare a 97,3 l’anno successivo. In parole povere, la crisi del costruito implicava la riduzione in un anno di quasi un terzo della produzione, con un calo di 865.114 vani rispetto al 1963. Fatto tanto più grave se si considera che la domanda non si era contratta in tale proporzione, semmai mutando natura nel momento in cui i processi di migrazione interna, che portavano molti lavoratori del Sud nel Nord del Paese, avevano incentivato la richiesta di abitazioni a canone popolare nelle città industriali.
Domanda, questa, che tendeva però a rimanere inevasa, ponendo le premesse per un successivo sviluppo urbanistico delle grandi periferie di Torino, Milano, Genova e di altre metropoli, non in base ad un piano ordinato ma sulla scorta dell’occasionalità. Gli anni successivi al 1964 segnarono quindi una battuta d’arresto e poi un arretramento per l’intero comparto, sia dal punto di vista dei processi di razionalizzazione urbanistica sia sul versante produttivo. Mentre il centro-sinistra in difficoltà indietreggiava dinanzi agli attacchi degli interessi dei gruppi conservatori, sul piano della normativa urbanistica la Legge 167 veniva disattivata in tutti i suoi potenziali effetti progressivi.
Non pochi elementi congiuravano verso una soluzione riformista dei problemi: i ritardi da parte del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici nell’approvazione dei piani particolareggiati collegati alla legge, senza i quali essa non poteva avere effettività; la mancanza dei fondi per gli indennizzi di esproprio e per l’urbanizzazione dei suoli; la sentenza avversa, pronunciata dal Consiglio di Stato, che ne aveva messo in discussione l’intero impianto rinviandolo al vaglio della Corte costituzionale; la dilazione, oltre ogni limite di sopportabilità, dei tempi di attuazione delle norme in essa contenuti (con la conseguente levitazione dei prezzi delle aree espropriabili, decuplicati nel volgere di poco tempo).
Inoltre, i tentativi di dare vita ad una nuova legge urbanistica, due progetti presentati nel 1964 e nel 1967, furono insabbiati. In compenso l’approvazione della Legge Ponte, la 765 del 1967, intitolata a «Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica del 17 agosto 1942», si tradusse in una incentivazione dei più tradizionali meccanismi speculativi tipici del settore. Dei contemporanei interventi cosiddetti «anticongiunturali » (tra cui le agevolazioni fiscali e la concessione di mutui a tassi agevolati), assunti per fare fronte alla crisi del settore, beneficiò solo l’azione di smaltimento delle abitazioni rimaste invendute.
Nel complesso, dopo il 1963 si inaugurò un ciclo di stagnazione in edilizia che colpì alcuni suoi tradizionali punti deboli, a partire dalle costruzioni a fini abitativi.
Non la stessa cosa riguardava lo sviluppo delle aree turistiche che tuttavia, per la loro natura, non erano di certo gli ambiti sui quali maggiori erano le richieste e le aspettative popolari.
Peraltro se lo scenario economico era così poco motivante, quello politico, con l’ascesa al Quirinale di Giuseppe Saragat, la presenza dei democratici di Kennedy e poi di Johnson alla Casa Bianca, e il magistero pontificale di Giovanni XXIII, sembrava dare qualche segno di speranza.
Per la Feneal, come per tutti gli altri sindacati edili, si trattava di contrattare un processo di razionalizzazione dei cantieri per i quali si imponeva sia un accrescimento degli investimenti tecnici che della specializzazione dei lavoratori.
Claudio Vercelli