Il quadro generale dell'edilizia, ed in particolare di quella abitativa, è segnato - a partire dalla metà degli anni Sessanta - dal rallentamento della costruzione di case. Una decelerazione che nel decennio successivo si sarebbe tradotta in un vero e proprio crollo. La sequenza storica fornitaci dall'Istat è, in sé, interessante. Nel 1946 erano state ultimate 33.818 abitazioni, per un totale di 99.406 stanze (con un rapporto tra stanze per abitazione di 2,9). Dieci anni dopo si era oramai entrati in un vero e proprio boom edilizio.
Il quadro generale dell’edilizia, ed in particolare di quella abitativa, è segnato – a partire dalla metà degli anni Sessanta – dal rallentamento della costruzione di case. Una decelerazione che nel decennio successivo si sarebbe tradotta in un vero e proprio crollo. La sequenza storica fornitaci dall’Istat è, in sé, interessante. Nel 1946 erano state ultimate 33.818 abitazioni, per un totale di 99.406 stanze (con un rapporto tra stanze per abitazione di 2,9). Dieci anni dopo si era oramai entrati in un vero e proprio boom edilizio.
Il quadro generale dell’edilizia, ed in particolare di quella abitativa, è segnato – a partire dalla metà degli anni Sessanta – dal rallentamento della costruzione di case. Una decelerazione che nel decennio successivo si sarebbe tradotta in un vero e proprio crollo.
La sequenza storica fornitaci dall’Istat è, in sé, interessante. Nel 1946 erano state ultimate 33.818 abitazioni, per un totale di 99.406 stanze (con un rapporto tra stanze per abitazione di 2,9). Dieci anni dopo si era oramai entrati in un vero e proprio boom edilizio. Nel 1956, infatti, le abitazioni costruite erano state ben 231.630 per 845.845 stanze (con un rapporto di 3,6, che si manterrà costante fino alla fine degli anni Sessanta).
I punti più alti si erano poi registrati nel 1963, con 417.124 appartamenti per più di un milione e mezzo di stanze, e nell’anno successivo, con ben 450mila alloggi. Poi, nel 1965, la tendenza si era seccamente invertita, passando a 375.255 abitazioni, per ancora proseguire la china discendente, con 289.290 appartamenti nel 1966 (pari a poco più di un milione di stanze). Il decennio si sarebbe concluso con una ripresa, corrispondente ai 377.243 alloggi del 1970, per registrare infine un tonfo nel 1974, con soli 180.698 abitazioni.
Questo il quadro quantitativo.
La crisi del settore, di cui abbiamo già parlato nelle puntate precedenti, aveva origine dalla parabola discendente della fortissima domanda che era derivata dal grande sviluppo economico ed edilizio a cavallo tra il 1955 e il 1965. Di fatto, con la seconda metà del decennio, si entrò in una fase di contrazione. Ciò, tuttavia, non significava che tutti gli italiani avessero oramai un tetto stabile sulla testa. Il censimento del 1971 avrebbe registrato, a fronte di 16 milioni di famiglie, 15,3 milioni di case occupate. Non di meno, la qualità dell’abitato lasciava ancora spesso troppo a desiderare.
Frequente era il fenomeno del pendolarismo, che segnava la distanza tra il luogo di residenza e quello di lavoro. Un fatto comune anche a molti altri Paesi europei, poiché proprio dell’urbanizzazione matura, ma che in Italia era reso molto più faticoso dall’assenza di un adeguato sistema di trasporti pubblici. La fase di contrazione dell’edilizia abitativa corrispose quindi all’estinzione della domanda indistinta, ovvero quella che chiedeva case a qualsiasi prezzo.
Con la seconda metà degli anni Sessanta il travaso dalle campagne alle città, con il transito ad un lavoro industriale e nei servizi, era oramai un fatto compiuto.
Non di meno, l’espansione urbana – che nei due decenni precedenti era avvenuta pressoché senza freni – ora tendeva a ridimensionarsi.
A ciò, pertanto, si accompagnava una ridefinizione della richiesta di abitato, anche in sintonia con l’evoluzione delle lotte politiche, sociali e sindacali in corso soprattutto nella grande industria. Il concetto che iniziava ad affermarsi induceva a ritenere che non solo dovesse sussistere una proporzione ragionevole tra costi d’abitazione e reddito, ma che la casa fosse un diritto di cui le pubbliche amministrazioni dovevano in qualche modo farsi carico. Le lotte in tal senso, a volte anche con connotati non esenti da velleitarismi, si sarebbero articolate per tutto il decennio successivo.
Nello stesso tempo gli enti locali, i cui organismi elettivi potevano contare su maggioranze sempre più spesso di centro- sinistra, e con una forte presenza della sinistra stessa, avevano iniziato a porre dei freni alla speculazione edilizia che, negli anni Cinquanta, aveva invece dominato pressoché incontrastata, il più delle volte con l’avallo dei politici della Democrazia Cristiana e dei partiti di destra.
La nuova legislazione urbanistica, a partire dalle disposizioni previste dalle leggi 60, 246 e 1444 del 1963, e poi integrata dalla legge 765 del 6 agosto 1967 relativa a «modifiche ed integrazioni della Legge urbanistica numero 1150 del 17 agosto 1962», iniziò quindi a mettere mano all’intervento edilizio. Non a caso le norme varate nel 1967 sono conosciute anche come «legge ponte», avendo l’obiettivo di fare transitare l’intero settore dalla normativa precedente a una nuova configurazione, secondo un ordine e dei criteri di sviluppo che fino ad allora erano mancati.
Di fatto ciò si tradusse in una limitazione dei privilegi di cui i costruttori avevano goduto, a partire dai sovraprofitti della rendita urbana. Tra piani regolatori approvati o in via di discussione e approvazione, tra espropri e incremento della tassazione, per i cosiddetti palazzinari e cementificatori la vita si fece un poco più difficile.
Di fatto, all’incremento dei prezzi del costruito corrispose un decremento della domanda, ovvero un suo riposizionamento sulla base di considerazioni più realistiche, ossia meglio corrispondenti alle esigenze concrete della collettività. In altre parole, non una casa purché fosse, ma un’abitazione a costi sostenibili. Ciò comportò anche la diminuzione della capacità di rastrellare il risparmio privato che i costruttori italiani avevano maturato, pari solo a quella del sistema del credito di cui, per più aspetti, erano interfaccia, ma anche competitori. Con l’aumento dei costi per le costruzioni, fatto dovuto alla maggiore oculatezza introdotta dalla nuova politica urbanistica, e il decremento della rendita immobiliare, i guadagni stellari dei tempi precedenti furono così in parte contenuti. I problemi del comparto, tuttavia, rimanevano immutati, a partire dalla obsolescenza tecnologica delle imprese e degli apparati produttivi, all’incapacità di pensare ad un programma di edilizia economica efficace, alla visione dell’abitazione in termini anacronistici, laddove invece – quanto meno in altre parti d’Europa – iniziavano ad affermarsi e diffondersi criteri di nuova razionalità, soprattutto sul piano energetico. Il contratto degli edili firmato nel 1966 a modo suo registrava queste incongruenze.
I costruttori continuavano a minacciare licenziamenti in massa a fronte della contrazione dei profitti, con l’obiettivo prioritario di rendere la nuova legislazione urbanistica più blanda.
Di fatto è in quegli anni che una parte di essi si lancia su di un nuovo mercato, quello delle «seconde case», intese come abitazioni di villeggiatura o come beni d’investimento, del pari alla rendita fondiaria: le une e l’altra garantiscono ancora margini elevati di guadagnano, trovando in acquirenti facoltosi o alla ricerca di investimenti sicuri due soggetti di elevata capacità economica.
Claudio Vercelli