Ametà degli anni Cinquanta due erano i modelli di sindacato che raccoglievano la maggioranza dei consensi.
Vale la pena di tornarci sopra poiché comprendere le divisioni di allora aiuterà, più avanti, a meglio capire le ragioni delle differenze di oggi. Da una parte vi era la componente per così dire «rivoluzionaria».
Si trattava di quel gruppo di organizzazioni, in Italia come in tutta l’Europa, che si rifaceva al modello sovietico, ritenendo che nessun reale miglioramento delle condizioni di vita sarebbe derivato ai lavoratori se non si fosse pervenuti, almeno sul lungo periodo, ad una trasformazione completa delle società occidentali in senso comunista.
Ametà degli anni Cinquanta due erano i modelli di sindacato che raccoglievano la maggioranza dei consensi.
Vale la pena di tornarci sopra poiché comprendere le divisioni di allora aiuterà, più avanti, a meglio capire le ragioni delle differenze di oggi. Da una parte vi era la componente per così dire «rivoluzionaria».
Si trattava di quel gruppo di organizzazioni, in Italia come in tutta l’Europa, che si rifaceva al modello sovietico, ritenendo che nessun reale miglioramento delle condizioni di vita sarebbe derivato ai lavoratori se non si fosse pervenuti, almeno sul lungo periodo, ad una trasformazione completa delle società occidentali in senso comunista.
Ciò implicava il perseguire come obiettivo di fondo l’abbattimento del sistema capitalista. Non necessariamente con uno stravolgimento violento ma comunque attraverso una lotta politica orientata verso un indirizzo inteso come di natura per l’appunto rivoluzionaria.
Da questa impostazione derivava il ricorso alla conflittualità permanente contro le imprese e le istituzioni, non meno che l’idea, tradotta poi in prassi concreta, che fare azione sindacale volesse dire essere subalterni all’indirizzo politico espresso dal partito di riferimento, ovvero quello comunista.
Dall’altra parte si collocavano invece quanti si riconoscevano in una prospettiva «riformista» (nel caso del sindacato cattolico a ciò si aggiungeva il «solidarismo » di matrice cristiana), di radice socialista democratica e laburista.
Per i riformisti il vero obiettivo era quello di incentivare in tutti i modi possibili la redistribuzione della ricchezza prodotta dalla società nel suo insieme tra il maggior numero possibile di persone, favorendo la diffusione del crescente benessere anche tra gli strati più poveri. Andava poi in questo senso l’azione per il consolidamento di quello che iniziava ad essere conosciuto come «stato sociale», ovvero l’insieme delle norme e dei servizi con i quali lo Stato moderno cerca di eliminare, o almeno attenuare, le diseguaglianze sociali ed economiche fra i cittadini, aiutando in particolar modo i ceti meno abbienti.
L’impegno per la diffusione del sistema di garanzie sociali implicava l’estensione dell’assistenza sanitaria, della pubblica istruzione, il miglioramento dei sistemi di previdenza e di tutela per anziani e invalidi, la lotta alla disoccupazione ma anche la difesa dell’ambiente e il libero acceso alle risorse culturali (come ad esempio le biblioteche). La Uil, e con essa la Feneal, si riconoscevano, così come la Cisl, sindacato di salde radici cattoliche, nel filone riformista.
Diverso era invece il radicamento della Cgil, legatissima al Partito comunista di Palmiro Togliatti e a quello socialista di Pietro Nenni. Per queste ultime due organizzazioni il sindacato di riferimento era concepito come una «cinghia di trasmissione», ovvero come lo strumento per portare avanti le proprie istanze politiche.
Scarsa, quindi, doveva essere la sua autonomia. La frattura tra riformisti e rivoluzionari, che riproduceva quella tra riformisti e massimalisti che aveva attraversato e lacerato il movimento operaio fino agli anni Quaranta, era tale da costituire un forte freno all’evoluzione unitaria del movimento sindacale italiano.
La Cgil accusava la Cisl e la Uil di essere di fatto dei sindacati al soldo dei padroni, con un unico obiettivo, quello di volere integrare le masse di lavoratori all’interno del «sistema», spegnendone gli aneliti rivoluzionari.
Da questa premessa, che inibiva ogni azione comune, derivavano così molte delle difficoltà che l’azione sindacale andava incontrando.
Mentre in Europa il modello riformista era prevalente pressoché un po’ ovunque, con l’eccezione della Francia, in Italia faticava ad affermarsi.
È in questo contesto che la Feneal dovette concorrere a fare fronte, con le risorse e le forze che aveva a disposizione, a quella che fu la lunga e problematica «emergenza casa», ossia la cronica assenza di alloggi.
Essa datava già agli anni della guerra, quando le enormi 1951 – 2008 Più di mezzo secolo di lotte L’avventurosa storia della Feneal-Uil Tra ricostruzione e sviluppo economico, il sindacato tutela un Paese in cambiamento Negli anni ’50 l’unità sindacale era divisa tra rivoluzionari e riformisti distruzioni si erano sommate al rallentamento delle costruzioni, avvenuto tra il 1936 e il 1942.
A queste premesse si erano poi aggiunti i problemi legati al naturale deperimento degli stabili, all’incremento della popolazione dall’immediato dopoguerra, alla propensione di molti a trasferirsi nelle città, lasciando le originarie residenze rurali, all’esodo convulso di centinaia di migliaia di persone dai territori perduti dall’Italia dopo il 1945.
Insomma, a metà degli anni Cinquanta mancavano all’appello almeno un milione di abitazione per un totale di 3 milioni e mezzo di stanze.
Ma anche il patrimonio edilizio esistente era precario poiché privo di servizi igienici adeguati, obsoleto, fatiscente e per nulla funzionale. Nel 1954 il governo italiano mise a punto un «piano per l’edilizia popolare», firmato dall’allora Ministro dei lavori pubblici Giuseppe Romita. L’insieme dei provvedimenti aveva la natura dell’urgenza, dovendo nel medesimo tempo fare fronte – e a breve – alla costruzione di un gran numero di abitazioni (non meno di 120.000 l’anno), all’eliminazione di molte costruzioni insalubri e malsane, alla distruzione di baracche e all’ostruzione degli ingressi delle grotte dove migliaia di famiglie continuavano a vivere.
A questo primo atto legislativo ne seguirono ben presto altri, tra i quali quello che disponeva lo stanziamento di 15 miliardi di lire per il sostegno degli enti che si fossero adoperati per la costruzione di alloggi popolari, insieme agli interventi a favore dell’edilizia privata in regime di sostegno pubblica.
L’obiettivo, in questo caso, era quello di immettere nel mercato altri 140.000 alloggi all’anno, rivolti soprattutto ai ceti meno abbienti.
La Feneal giudicò da subito positivamente il «Piano Romita » poiché per la prima volta, dopo dieci anni dalla fine della guerra, cercava di fare fronte ad una grande emergenza sociale non con misure occasionali ed estemporanee ma per mezzo di una leggequadro ispirata ai principi, sia pure ancora molto timidi, della programmazione di medio periodo. D’altro canto, uno dei primi effetti di queste scelte politiche fu quello di mettere in movimento l’intero settore delle costruzioni.
Imprese e lavoratori si posero così da subito all’opera. Per le prime arrivarono le commesse, per i secondi aumentarono i margini di trattativa sui propri salari. Il contratto dei lavoratori edili fu infatti firmato il 18 dicembre 1954, sulla base di un precedente accordo di conglobamento in paga delle varie voci di cui si componeva la retribuzione.
L’effetto fu un aumento medio del 10 per cento dei salari, un vero passo in avanti per l’intero comparto. Tuttavia, questo risultato era soddisfacente solo in parte poiché se offriva a tutti – manovali, operai specializzati e impiegati – un importante riconoscimento economico del quale c’era un grande bisogno, non di meno non affrontava altre questioni aperte.
Il problema più grande era quello dello “status” da riconoscere a chi lavorava nell’edilizia, ovvero la sua funzione sociale, i suoi diritti e le sue tutele. Tradizionalmente il lavoro nei cantieri era stato considerato un po’ come il fratello povero di quello svolto nelle grandi officine e nelle industrie, non diversamente dal bracciantato dei campi rurali.
Il movimento sindacale era alle prese con una miriade di problemi e con continue emergenze. Intanto molti italiani continuavano a vivere in condizioni difficili se non insostenibili: alla mancanza di case si sommava lo scarso reddito dei più.
Inoltre le maggioranze di governo, saldamente guidate dalla Democrazia cristiana, guardavano con un certo sospetto alle attività sindacali, considerandole potenzialmente affini agli interessi dell’opposizione guidata dal Partito comunista.
Peraltro le forze della sinistra parlamentare usavano non infrequentemente ricorrere alle lotte sindacali per avanzare istanze e per perseguire obiettivi di natura unicamente politica.
Più in generale, nel settore edile mancava tra i lavoratori una cultura della contrattazione, che considerasse la controparte imprenditoriale non un avversario da sconfiggere una volta per sempre bensì un interlocutore, sia pure concorrenziale, dal quale ottenere i legittimi riconoscimenti legati al proprio ruolo di operatori professionali. La conflittualità, quindi, quando non si perdeva nei mille rivoli del più elementare (e fallimentare) sovversivismo si traduceva in una sola istanza, ossia la richiesta di incrementi retributivi. Molto oltre non si era capaci di andare.
Mancava ancora quel collante più forte (subentrato poi con le lotte del decennio successivo), che permettesse invece di rivendicare l’attuazione dei diritti costituzionali legati al ruolo di cittadini lavoratori, oramai inseriti a pieno titolo nella società civile. Nei contratti degli anni Cinquanta non si fa menzione, se non occasionalmente, alla lotta contro le sperequazioni territoriali tra nord e sud e allo sviluppo degli istituti dello «stato sociale».
L’unica eccezione a questa altrimenti infelice “dimenticanza” era l’impegno di tutto il movimento sindacale a fare in modo di vedere riconosciuta su tutto il territorio nazionale la validità dei contratti di lavoro. Peraltro la differenza tra settentrione e meridione non solo non era andata attenuandosi ma era semmai aumentata.
Nel sud d’Italia l’illegalità e il caporalato proliferavano. Le regole sembravano essere un desiderio irrealizzabile; il loro rispetto una chimera.
Eppure il Paese era in marcia, e il sindacato si muoveva con esso.
Claudio Vercelli